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IT ALIA REDAZIONE IT ALIA REDAZIONE Pubblicato il 24/10/2012
Wolfsburg, la città degli "italianen". Quando i romeni eravamo noi

Wolfsburg, la città degli "italianen". Quando i romeni eravamo noi

Wolfsburg è una cittadina di circa 120mila abitanti, nella Bassa Sassonia, un paio d`ore di treno a ovest di Berlino. E` la sede principale della Volkswagen, la più grande casa automobilistica europea. Per capire come la fabbrica e la città siano profondamente legate, basta ricordare che la prima pietra dell`impianto Volkswagen (Vw) fu posta nel maggio del 1938. La città di Wolfsburg fu fondata il primo luglio dello stesso anno, nel cuore della Germania nazista. Oggi, che di anni ne sono passati 70, la città è molto più che la Volkswagen. Ma la simbiosi rimane impressionante. Per strada l`80% delle macchine è un modello Vw. E le altre sono Seat, Skoda, Audi, persino qualche Bentley e Lamborghini. Cioè gli altri marchi del gruppo Volkswagen, per chi non lo sapesse. Le eccezioni sono eccezioni.

Wolfsburg è anche patria di una delle più numerose comunità italiane in Germania. A partire dagli anni `60, dopo i primi accordi di collaborazione tra i governi di Roma e Berlino, migliaia di italiani hanno lasciato paesi e affetti per venire a costruire il miracolo economico tedesco, e la loro stessa sopravvivenza. Molti di loro atterrarono sul pianeta Wolfsburg e contribuirono a creare il successo del marchio tedesco nel mondo. Alla Vw avevano pensato a un opuscolo accattivante per invogliare i lavoratori italiani ad attraversare le Alpi. Correva l`anno 1963 e in copertina campeggiava una bella foto dell`impianto illuminato dai raggi del sole: Venite a lavorare alla Volkswagen, il titolo. Oggi, settantesimo anniversario della fondazione dell`azienda, Volkswagen ha voluto celebrare anche i lavoratori stranieri, invitandoli come ospiti nel cuore della multinazionale.

L`idea di riportare in fabbrica i Gastarbeiter della prima ora è venuta a Robertino Alaimo, del settore comunicazione, orgoglioso figlio di padre operaio, altrettanto orgoglioso di avere un figlio con la cravatta. «Questi ex-dipendenti sono importanti per la storia dell`azienda», ci dicono. Hanno scritto a 400 persone tra Italia e Germania. Al primo incontro (ne sono programmati altri, per i prossimi mesi) saranno una trentina, tutti residenti a Wolfsburg e dintorni. Tra di loro c`è anche Lorenzo Annese, che di macchine dalla linea ne ha viste uscire parecchie: è stato il primo rappresentante italiano a essere eletto nel Betriebsrat, il consiglio dei lavoratori, nel 1965. E Francesco Garippo, che nel consiglio siede invece oggi, da diversi anni ormai. All`inizio gli stranieri erano poche centinaia. Poi la produzione è decollata e con lei la domanda d`occupazione, che i tedeschi non erano in grado di soddisfare da soli. Il picco più alto di lavoratori stranieri c`è stato negli anni `70: quasi novemila, settemila dei quali italiani. Poi la crisi petrolifera del `73 e l`ondata di licenziamenti nel settore, che in un anno ha dimezzato le presenze. Ma gli italiani sono sempre stati il gruppo di stranieri più consistenti: sei, sette, in certi periodi anche otto su dieci. Oggi sono 1533, il 67,5% degli stranieri impiegati. «E sempre in prima fila nelle dimostrazioni del primo maggio», ricordano. Alla Vw il 90% dei lavoratori è sindacalizzato.

I primi italiani approdarono a Wolfsburg nel 1962. I più avevano firmato un contratto già in Italia. Salivano su treni speciali diretti al nord. Prima tappa Monaco. Di lì i Gastarbeiter venivano divisi per le destinazioni definitive: chi la Ruhr, fabbriche o miniere, chi la Volkswagen. «Era una cosa impressionante a vedersi», ricorda Quinto Provenziani, che per Wolfsburg è partito a 22 anni: «Con le voci della guerra ancora vive, vedere centinaia di persone scendere insieme dal treno a Monaco. Sulla banchina c`erano due donne con l`impermeabile lungo e il megafono che urlavano. Capirai l`impressione: e chi l`aveva mai visto un megafono!» Le donne italiane, quelle che erano venute al seguito dei mariti, la Vw non le assumeva. «Avevano paura che appena assunte si facessero mettere incinte per starsene a casa», ci racconta un invitato. Il pregiudizio durò ancora per tutti gli anni `70. Poi iniziarono ad andare a lavorare in fabbrica le prime figlie cresciute in Germania. Ma solo quelle nubili.

Dopo i saluti e le presentazioni ufficiali, la carovana degli ex-Gastarbeiter si mette in moto per un giro amarcord nell`impianto, che non è più quello di una volta. Per chi non è mai stato a Wolfsburg è difficile immaginare quello di cui si sta parlando: quattro chilometri quadrati di fabbrica. Padiglioni enormi, in qualche modo asettici, dove le linee scorrono lente mentre gli operai mettono assieme i pezzi delle vostre automobili. I vecchi operai italiani quei padiglioni li riconoscono a stento. «Ecco, il prossimo è dove lavoravo io», mi dice uno di loro. Poi quando ci arriviamo il sorriso si blocca: «Si ma allora era tutto diverso», dice a voce più bassa. Allora la fabbrica era rumore, puzza di olio, sudore. E nonostante tutto per loro era comunque la vita. Ora la guardano con occhi languidi e orgogliosi, senza i rancori che da giovani lavoratori devono pur aver provato. Il convoglio si ferma di fronte a un matrimonio. Il matrimonio, ci spiegano, è quando il motore viene montato nel telaio dell`auto. La fabbrica ha un linguaggio tutto suo. Più avanti Giovanni Lazzara di Caltannissetta, un altro ex-Gastarbeiter - o un ambasciatore della cultura italiana, dice -, mi spiega come gli sportelli, i figli, vengono separati dalla mamma, il telaio, per la verniciatura. Corrono per un po` su linee parallele, «ma poi si ritrovano più avanti». Le parole sono importanti.

A chiedere quant`era dura la vita allora, la prima risposta la leggi in un sorriso trattenuto. I lavoratori italiani vivevano tutti insieme, nella zona del Berliner Brücke. Erano baraccati, senza eufemismi. Gli operai dovevano pagare 30 euro al mese di pigione, circa 12 ore di paga, comprensiva di un pasto preparato nella cucina della baraccopoli. L`azienda aveva costruito una villaggio per Gastarbeiter, circondato da un recinto con tanto di filo spinato e guardie di sorveglianza, la polizia di fabbrica, e cani da guardia. Negli anni ne ha viste tante, quella rete. Nel 1963 alla baraccopoli degli italiani esplose una vera rivolta. Uno di loro si era ammalato ed era morto. «Ci vogliono uccidere tutti», gridarono alcuni prima di bloccare l`accesso al ponte che sovrastava le casupole, il Berliner Brücke. Ci fu un confronto duro con la polizia, poi tutto tornò alla normalità, e i nostri guadagnarono un`infermeria all`interno della baraccopoli. Oggi in fabbrica ci sono quattro centri per la tutela della salute.

Non te lo aspetteresti, eppure alla recinzione sono legati anche ricordi spiritosi. I tedeschi non volevano che portassimo ospiti femminili nel campo. Volevano ridurre il contatto tra gli italiani e le tedesche. «Ma quanti buchi c`erano in quella rete non te lo puoi immaginare», ricorda Quinto Provenziani con gli occhi furbi. Tanto la sera non si dormiva lo stesso, mi racconta Vincenzo Lo Presti, settantasettenne siciliano di Paternò, «i giovani facevano andare i giradischi fino a tardi». «La rete? Lo facevano così, per proteggerci», continua Lo Presti, a cui quella vita non è mai stata troppo stretta. È difficile da capire, oggi. Ma per lui la cosa era diversa. Nato in Argentina, tornato con la famiglia in Sicilia dopo che il padre aveva perso il lavoro, all`inizio degli anni `60 aveva dovuto lasciare di nuovo la sua terra e, insieme a quella, moglie e due figli piccoli. Una storia d`emigrazione come tante altre, tutte verso uno dei tanti nord. Dopo un anno durissimo - otto, dieci ora in fabbrica a tre marchi e venti all`ora e prima che sorgesse il sole nei campi a raccogliere barbabietole per guadagnare un po` di marchi in nero, due e mezzo all`ora - quel siciliano orgoglioso aveva deciso di tornarsene a casa. Ma la Germania aveva bisogno di braccia. Cosa vuoi per restare?, gli chiesero. E fu così che il sig. Lopresti di Paternò poté far venire moglie e figli nella nuova casa in affitto che gli aveva procurato la società: 58 mq a 90 marchi al mese. «Ci vivo ancora oggi e pago poco. Ma solo perché ci sto da 50 anni».

Sì perché il mercato immobiliare di Wolfsburg con gli anni è cambiato. Per essere una città relativamente piccola gli affitti sono cari. Colpa, o merito, delle retribuzioni Vw: i dipendenti guadagnano bene. Come ogni multinazionale che si rispetti Vw ha anche un settore immobiliare, con un migliaio di proprietà solo qui in città. Ma niente più agevolazioni per i dipendenti: «I prezzi li fa il mercato e la concorrenza di altri tre o quattro operatori», ci spiegano.

Quinto Provenziani all`incontro non ci sarebbe nemmeno voluto andare. Pensava che un`occasione simile li potesse ridurre di nuovo a quel ruolo che hanno impersonato per decenni prima di liberarsi, con la pensione o, come lui, con l`arte: «Arieccoli i Gastarbeiter!». Quinto ha una moglie tedesca, da 36 anni. Sposarsi è stata un`avventura. Il padre della moglie era un simpatizzante dell`Npd, il partito neonazista. Gli italiani? Traditori, canaglie. Solo con l`intermediazione di un mastro della Vw sotto il quale lavorava Quinto, un amico del padre, la storia è finita bene. Anche Provenziani è stato nel Betriebsrat, che gli ha evitato per due volte il licenziamento. Poi a un certo punto si è reinventato artista. Di discreto successo. É sua la statua L`emigrante, in ricordo degli anni della baraccopoli italiana. Gliel`ha commissionata il comune. È un bronzo, rappresenta uno di loro, sguardo dritto e valigia di cartone in mano: la storia di tutti. In origine gli italiani avrebbero voluto allestire un museo nelle ultime due o tre casupole rimaste. Ma Peter Hartz - allora capo del personale, oggi caduto in disgrazia per aver avallato un sistema di corruzione a luci rosse - si oppose in ogni modo. E quando il principale finanziatore delle casse comunali parla, si obbedisce. La statua fu un compromesso. Un bel compromesso. Che oggi però è relegata in un angolo lontano, all`ombra della grande Volkswagen Arena, lo stadio di Bundesliga dove gioca la squadra di casa, il Wolfsburg.

«Negli anni `60 siamo stati costretti ad abbandonare la nostra terra e le nostre famiglie per vivere», confida Giovanni Lazzara. «E ora che siamo in pensione, e potremmo tornare al paese, rimaniamo qui per non perdere di nuovo la nostra famiglia. I nostri figli sono nati, cresciuti e lavorano in Germania. A ritornare in Italia non ci pensano. E noi, che abbiamo lasciato allora i nostri genitori, dovremmo ora lasciare i nostri figli e nipoti? Per tornare poi in una terra che non riconosciamo più. Dove i nostri vecchi amici e parenti o sono morti o sono estranei».

E quei figli, cos`è per loro la fabbrica? «Per noi figli la fabbrica è schifosa», ci racconta Veronica, che ha 20 anni, lavora in una pizzeria sulla Porsche strasse, la via pedonale dello struscio, e dice di essere mezza pugliese e mezza calabrese. Vedono i genitori che tornano a casa con la schiena spezzata e si lamentano. E chi glielo fa fare, ai giovani, di seguire le loro orme. Nella mia classe ci saranno finiti in due o tre alla Vw. Veronica è nata in Germania, dove ha vissuto tutta la sua vita. Ma se glielo chiedi ti risponde che è italiana. Senza dubbio. I tedeschi sono diversi: «Se hanno un obiettivo vanno dritti per la loro strada e non ammettono mai di avere torto. Noi invece viviamo più alla giornata». Annuisce il cugino diciottenne, appena arrivato dalla Sicilia per lavorare.

La fabbrica li ha traditi, ci spiegano: ora entrano solo più gli interni, quelli che sono riusciti a trovare un posto da stagista. Ma non è più nemmeno una garanzia. Con la recente crisi dell`azienda il sistema è cambiato: fino a 10 anni fa i padri lasciavano il posto ai figli. Oggi non è più così, anche se recentemente Vw ha annunciato nuove assunzioni. «Eppure ci sono alcuni miei amici entrati in fabbrica che a 30 anni hanno già 16 anni di contributi», ci racconta André Pichiri, giornalista sportivo della Wolfsburger Allgemeine Zeitung. Personalmente André non si sente italiano tra italiani, né tedesco tra i tedeschi. La sua è una storia esemplare: il padre ha sempre fatto di tutto per l`integrazione dei figli, voleva essere un modello. E così André, dopo l`università, è finito a scrivere nel quotidiano locale.

Per alcuni di questi giovani le divisioni e i pregiudizi che hanno segnato la vita dei genitori sono ancora vivi. A scuola si chiamano Kartoffel e Spaghettifresser o Itaka, come venivano chiamati i loro genitori, e di scambio ce n`è poco. Problemi con la destra xenofoba ne avete? «Non ci sono praticamente più», dice Veronica. Roba di vent`anni fa. Ce li racconta un suo collega parecchio più grande di lei, gli anni `80 a Wolfsburg: «Allora venivano in bande ogni tanto a spaccare le vetrine dei ristoranti italiani». Oggi la situazione è tranquilla in città e comunque tra gli stranieri gli italiani sono quelli più rispettati. «Solo un episodio», ricorda Veronica con un sorriso, «per la semifinale dei mondiali di calcio di due anni fa, ci fu una mega rissa». Per l`occasione vennero da fuori gruppi di estremisti organizzati con l`intenzione di attaccar briga.

Per i figli degli italiani a Wolfsburg c`è l`unica scuola italo-tedesca in tutta la Germania, la Deutsch-Italienische Gesamtschule, nella Örtze Straße. La direttrice Dorothea Frenzel ci accompagna per un giro nella struttura, insieme al console Antonino Ricetti, orgogliosi del lavoro comune. La prima cosa che non ti aspetti è che qui i figli di italiani non sono nemmeno la maggioranza. «Il 40% degli studenti viene da famiglie italiane, il 40% da famiglie tedesche e il 20% da matrimoni misti», ci spiega la direttrice. Nell`edificio ci sono ragazzi dai 3 ai 18 anni, circa 400 studenti. Il governo regionale paga aggiornamenti per professori tedeschi in Italia. Le materie vengono insegnate in tedesco ma c`è grande spazio e attenzione per l`italiano. «Le attività teatrali sono anche molto importanti per l`apprendimento della lingua», spiega Dorothea Frenzel. Fin da piccoli i bambini crescono con due lingue. E dal terzo anno l`inglese è obbligatorio. Chi entra più tardi si porta dietro problemi di scrittura e qualche difficoltà ad esprimersi in un italiano non dialettale. Eppure qui la media dei voti e dell`abbandono scolastico non è diversa dalle altre Gesamtschüle tedesche. Un dato interessante se si tiene conto che sul campione nazionale i ragazzi di famiglie italiane sono quelli, tra i principali gruppi di migranti, a ottenere i risultati peggiori. Persino dietro ai figli di famiglie turche, che in genere vivono profondi problemi di integrazione. Gli spagnoli iscritti all`università sono il triplo degli italiani, nonostante Roma investa ogni anno 3,5 milioni di euro per lezioni di tedesco, corsi di formazione per i genitori e lezioni miste, con docenti italiani e tedeschi.

E la mafia? Se c`è non si vede. Tanti anni fa, tra gli anni `70 e `80, ci raccontano, ci sono stati alcuni casi e anche qualche omicidio. L`ultimo nel `91. «Hanno provato a infiltrarsi, ma non ci sono riusciti», ci spiegano. Che sia vero? Oggi non si sente né si vede. Il che, si sa, non è garanzia di nulla. Del resto la compravendita di proprietà da parte della criminalità organizzata avviene da circa 30 anni, aveva detto il procuratore aggiunto di Palermo, Roberto Scarpinato, in un`intervista al settimanale tedesco Die Zeit: «È cominciata già nel 1982, quando in Italia fu approvata una legge in base alla quale bastava un sospetto per poter confiscare i beni. Da allora i boss della mafia siciliana hanno deciso di investire gran parte dei loro beni in Germania». Fare indagini oggi è difficile: «Per trovare questi beni bisogna trovare i prestanome, ma per come sono oggi le leggi tedesche, non c`è quasi possibilità di indagare». In Germania, aveva riferito Scarpinato, che è stato uno dei collaboratori del giudice Falcone, «è praticamente impossibile intercettare. In questo modo ci si priva dell`unico strumento utile per le indagini. Se non potessimo intercettare in Italia, non potremmo più fare nessun processo di mafia. Solo raramente ci sono mafiosi pronti a collaborare con la giustizia. Se dovessi cercare in Germania il patrimonio di un mafioso, non saprei da dove cominciare». Tra l`altro qui non esiste il reato di associazione mafiosa né è possibile sequestrare capitali.

Intorno alla Vw negli anni sono sorte decine di imprese. Non solo ristorazione, come si può immaginare. Ci sono 269 ditte con titolari italiani a Wolfsburg, che danno lavoro a circa 1400 persone. Solo la metà è legata alla cucina italiana. Molte piccole e medie imprese lavorano nell`indotto Vw: costruiscono pezzi per le auto o per i macchinari. Qui Magneti Marelli negli ultimi anni ha investito 2,6 milioni di euro. Nel 2006 i 900 fornitori del gruppo Vw hanno fatturato più di un miliardo di euro, ci spiega il console Ricetti. Negli anni la comunità italiana si è radicata definitivamente a Wolfsburg. Non è una società parallela, ma alcune fasce più deboli sono escluse. C`è un centro italiano finanziato dal comune, dove ci si ritrova per giocare a carte, a bocce e per il calcio, naturalmente. C`è molta attenzione per chi si fa raggiungere. «Ma il problema», ci confida Quinto Provenziani prima di salutarci, «è che molti vivono in totale solitudine. E muoiono anche da soli. Poco tempo fa hanno scoperto il corpo di un italiano, in casa sua. Era morto da giorni».

Matteo Alviti, tratto dal quotidiano ”Liberazione” del 10/05/2008

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