LE TRADIZIONI - Parte VI^ -

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 02/12/2005
<b>LE TRADIZIONI</b>  - Parte VI^ -

LE TRADIZIONI - Parte VI^ -

tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30 -’40.
Per la gentile concessione alla divulgazione telematica del libro, si ringraziano sia gli Eredi dell’Autore sia l’Amministrazione comunale di Alia, che nel 1997 ne ha curato la prima edizione.

La festa della Madonna

" Ma la festa delle feste per gli aliesi, quella che possiamo definire la regina di tutte le feste, era quella dedicata alla Madonna, alla quale era stata intitolata dagli antichi nobili del feudo di Lalia la Chiesa Madre. Veniva solennizzata il 2 luglio, una data che, per altri versi, era assai importante per.la vita della gente. La festa della Madonna, infatti, dava il via, il giorno appresso, alla mietitura, il momento più incisivo di tutta 1'annata agraria dalla quale dipendeva la vita, la pace del popolo. I contadini avrebbero ricevuto dall'impegno di un anno di lavoro, di sacrifici, di speranze, la porzione del meritato raccolto: il grano per viverci tutto 1'anno. La giornata della Madonna era, dunque, giornata di festa, di attese e di speranze. Anche questo accostamento tra la festa della Madonna e la mietitura si era tramandato nei secoli: erano due avvenimenti uniti da un medesimo sentimento spirituale di tutto un popolo.
Per il giorno della festa ciascuno indossava il vestito più bello, e le donne in particolare si adornavano per apparire più belle, e tiravano fuori dai canterani lo scialle nuovo che usavano mettere solo nelle feste solenni.

Io conservo di quella festa un bel ricordo; oltre tutto era anche l'inizio delle vacanze scolastiche, quindi della spensieratezza, del godimento della stagione estiva.

Nel giorno della festa della Madonna, ma anche in occasione di altre, feste importanti, era consuetudine che ci si recasse a fare visita a parenti e ad amici di maggior riguardo. Rendere tale omaggio era una regola della vita, una consuetudine di quel tempo, frutto di un'antica tradizione che impegnava grandi e piccini. Erano, insomma, doveri ai quali non ci si poteva sottrarre, e si facevano anche volentieri e con spontaneità, considerandoli parte della festa. Per i più piccini queste visite erano anche redditizie perché era uso che i parenti donassero "la fera": una moneta perché essi si comprassero qualche dolcino quando si recavano in piazza, alla fiera.
Ricordo in particolare la visita che facevamo, mio fratello Giulio e io, alla zia Gaetanina che abitava con due figlie in un grande palazzo, nel quartiere di S. Rosalia. Quelle nostre visite erano piuttosto periodiche e non soltanto nelle ricorrenze solenni. Come ho già detto la zia Gaetanina viveva con due figlie, non più giovanissime, o almeno così apparivano a noi che eravamo piccini (i bambini vedono i più grandi sempre come fossero anziani), ed era una vecchietta simpatica e buona, che non usciva mai: sempre in quel grande edificio, senz' altra compagnia che le due figlie e una vecchia serva.

Mi piaceva zia Gaetanina e mi piaceva quel suo palazzo dall'ampia scalinata di marmo, il lucernario grande e luminoso che quando era tutto invaso dal sole, rifletteva sulla lunga e bella scala i tanti colori dei vetri, rosso, verde, giallo: un arcobaleno!

Più tardi, quando da grande passavo davanti a quel palazzo, chissà perché, vedevo quel grande edificio adatto per farne un ospedale. Sì, un ospedale per gli abitanti di Lalia e della zona. E non credo che la mia fosse una bizzarria, perché nella zona di Lalia non esiste ancora oggi un ospedale!
Quelle visite alla zia Gaetanina ci mettevano un po' in imbarazzo. Che cosa possono dire due bambini a una persona anziana? Ma la zia era indulgente: comprendeva e consolava quel nostro silenzio con ampi sorrisi, facendoci complimenti per, non so, il vestitino che indossavamo, chiedendoci notizie della mamma, della nonna... E noi rispondevamo a monosillabi; ed ogni minuto ci sembrava un'eternità, attenuata da qualche biscottino che ci veniva offerto da una delle figlie, sopra una guantiera con un centrino bianco candido che rendeva più appetitosi quei dolci. La voglia di andare via era forte, ma ci era stato insegnato che non è educato andare via dopo avere accettato un' offerta; come quei buonissimi biscotti, per esempio. Così, in omaggio alla buona creanza, restavamo ancora un po' e poi chiedevamo alla zia il permesso di andarcene. Le baciavamo la mano ed ella, a questo punto ci faceva cenno di attendere ancora e, intanto chiamava la figlia Rosina e questa, come per un tacito accordo la vedevamo venire portando un dolce o un frutto e una monetina di cinque lire d'argento. Era la "fera""fera", ma il senso del dovere era avvertito oltre i doni.
Capisco che tutto ciò possa apparire ai nostri giorni un artifizio, una smanceria, ma era quella la linea sulla quale si costruiva la personalità di un ragazzo. E lo dico per testimoniare che quei metodi educativi nulla hanno tolto alla crescita autentica della mia personalità, della mia educazione, della mia, in una parola, civiltà. E credo che nessuna mortificazione ne sia derivata a quelli della mia generazione. Qualcuno potrebbe sospettare che codesti metodi educativi fossero appannaggio di una minoranza della società del mio tempo, della cosiddetta "società bene". Si dirà, saranno stati validi codesti metodi educativi in alcune famiglie. Insomma, i figli dei contadini... No, anche i figli dei contadini. Potevano non conoscere certe raffinatezze del vivere civile, ma la buona educazione era ancora più severa che nelle cosiddette buone famiglie; erano anch'essi educati al rispetto e alla buona creanza: le finezze sono una cosa, la buona educazione è un' altra cosa. È questa era comune a tutti, senza distinzione di classe, censo e non so quale altra artificiosa differenziazione sociale.
Del resto, anche queste consuetudini che ognuno viveva a modo proprio, erano anch'esse componenti di un'atmosfera di allegria, di fratellanza, di pace da associare alla centralità della festa della Madonna. Come le bancarelle allineate nella piazza; anche quelle motivo di allegrezza. Per tutto il giorno nella piazza, vicino alla chiesa di S. Giuseppe, era un via vai di gente, di ragazzi: vi si potevano trovare dai dolciumi, soprattutto la "cubaita" fatta, calda calda, da Peppe Marchiafava, alle scarpe con le suole chiodate, incerate, attrezzi per la campagna, quali zappe, aratri, erpici, falci, selle e "vardeddi" e "sidduna" e corde... tutta roba preferita dai contadini. E c'erano pure le bancarelle dove le donne vi trovavano fazzoletti per uomo, quelli rossi e blu, belli, grandi che potevano servire per soffiarsi il naso e magari per legarseli al collo nel tempo della mietitura, per proteggersi dalla polvere della paglia, o legarseli alla testa per ripararsi dal sole cocente; ma c'erano anche scialli e stoffe per donne e per uomini.

Vale giusto ricordare che per quanto riguarda le attrezzature per i contadini, queste si potevano trovare anche in paese tutto l'anno, ed anche di buona fattura, garantite dalla maestria di Ninu "u curdaru" che aveva la bottega sopra la strada del parco, vicino all'abbeveratoio e alla contigua fontana. All'abbeveratoio si dissetavano i muli, i cavalli, gli asini, alla fontana attingevano l'acqua potabile le donne che si affollavano tutto il giorno per riempire "li quartana", e nell'attesa del proprio turno, fare due chiacchiere; ma spesso anche litigare per rivendicare diritti di precedenza: c'ero prima io... non è vero "cummari" ?! Ma questa faceva finta di non sentire e si limitava a fare una smorfia che non era né un assenso né un diniego; e così finiva a urli e insulti.

Era anche quello un angolo della vita di quel monotono paese, resa così più vivace dagli strilli delle donne. E Ninu "u curdaru" , ogni tanto si affacciava davanti alla bottega e rivolgeva, con voce tra il serio e il faceto, qualche raccomandazione a quelle donne infuriate: - " Nun vi sciarriati fimmini... ca di acqua ci n'è pi tutti. Pazienza ci voli. E lassàtimi travagghiare in pace, pi favuri! ". E riprendeva a tingere l'incerata, o a tirare le corde con le quali confezionava "li rutùna", che erano i contenitori fatti a mo' di rete per il trasporto della paglia.
Il richiamo di Nino a quelle donne serviva a qualcosa perché tutte si dichiaravano pronte a tacere: "ragiuni avi don Ninu..." E si chetavano, ma solo per qualche minuto perché dopo un po' riprendevano a litigare, a rivendicare ognuno le proprie ragioni, ad urlare che, a sentirle, pareva si scannassero. Ed invece erano solo parole; magari un po' pesantucce, ma raramente quelle donne venivano alle mani: caso mai ci andava di mezzo qualche " 'nzira " che a forza di spinte finiva per rompersi e diventava un cumulo di "ciampariti" . D'altra parte se non profittavano di quell'unica occasione di incontro per "scambiare" qualche parola, anche se un po' chiassose, non si sarebbero incontrate mai quelle donne. Le fontane erano il salotto del paese.
È inutile aggiungere che le fontane pubbliche erano le sol che fornissero acqua potabile alla popolazione.
I bambini, che le madri spesso si portavano appresso per non lasciarli soli in casa, profittavano per giocare con l'acqua dell' abbeveratoio, bagnandosi e lanciandosi addosso la melma che copiosa trovavano nei suoi bordi. Se non altro quel gioco serviva a bagnare la strada vicina, attenuando la polvere che si sollevava dal tappeto di sterco secco."


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