la condizione sociale della donna

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 06/12/2005
<b>la condizione sociale della donna</b>

la condizione sociale della donna

tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30 -’40.
Per la gentile concessione alla divulgazione telematica del libro, si ringraziano sia gli Eredi dell’Autore sia l’Amministrazione comunale di Alia, che nel 1997 ne ha curato la prima edizione.


In quel tempo germogliavano certe «gemme» nel giardino del regime, certe massime «filosofiche», certe verità da portare in processione. Per esempio si solea affermare che «la donna non pensa, è! Quel «è» era tutto un programma sociale per la donna. Oppure un'altra gemma: «la donna deve obbedire». «Nel nostro Stato essa non deve contare». Come pure non c'erano scrupoli ad affermare: «il cervello femminile non è preparato alle carriere delle scienze, delle filosofie, della storia... » Ed altre facezie del genere che venivano prese per oro colato anche da certi intellettuali di facili costumi.

Il regime non aveva inventato nulla di nuovo, ma se ne vantava: brutalizzava una vecchia filosofia. In realtà esso che rappresentava una certa cultura borghese retriva, ne assumeva la tutela. Aveva della donna una visione patriarcale, una visione che da secoli era radicata nel mondo contadino: la donna produttrice di figli e niente più. Per cui in quei tempi era già gratificata e qualitativamente compensata la donna quando le si concedeva di imparare un qualche mestiere adatto alla funzione per essa predisposta, secondo quei canoni, ossia la sua funzione nell' ambito della famiglia e del suo «ruolo sociale» .

Così che la maggiore ambizione coltivata dalle ragazze, per uscire dal quotidiano pulire«quarareddi», badare ai fratelli più piccoli, era quella di imparare il ricamo o l'arte del cucito, far da sarta che era un mestiere fine e
delicato. Soprattutto il ricamo attirava moltissimo le.ragazze le quali, una volta imparata bene l'arte, potevano aspirare a mettere su bottega, lavorando per proprio conto.

La scuola di ricamo più apprezzata era quella di donna Giuseppina, la «bizzocca», lassù, sopra, «u rabatieddu»; ma anche la scuola delle sorelle Martino era considerata. Si imparava a ricamare e a pregare e, sottovoce, si parlava anche dei loro spasimanti.

Mestiere d'oro, dunque, quello del ricamo. Era quello, infatti, il tempo in cui la biancheria piaceva ricamata e la maggior parte delle famiglie che aveva una figlia da marito, si accollava qualsiasi sacrificio pur di avere la fortuna di assicurare, in misura maggiore o minore, la dote della biancheria ricamata: lenzuoli, federe, asciugamani...

Avere la dote della biancheria ricamata era motivo di vanto e anche di valore di scambio nella promessa matrimoniale. Il corredo faceva parte della dote. Quando due giovani si promettevano, i parenti e gli amici erano a chiedersi: «idda chi ci porta pi doti? E iddu?» E così facevano i conti di quanti lenzuoli, asciugamani e quant' altro capo di biancheria portava la ragazza, e quanto terreno portava, se lo portava, lui. Una ragazza che sapeva fare di ricamo, dunque, era già una privilegiata. Il desiderio più vivo per una ragazza, non dimentichiamolo, era il matrimonio! Non era facile, ma ci provavano tutte! «Accasarsi» era la sola via d'uscita per una povera figlia di contadini e per la famiglia: una volta sposata, sarebbe stata una bocca in meno da sfamare. Per le ragazze benestanti, invece, il matrimonio era la soddisfazione di non morire zitelle, specie se non erano granché belle.

Ma credete voi che fosse così facile trovare marito a una figliola? Non che non ci fossero giovani scapoli disposti a impalmare qualche buona creatura che anzi, non aspettavano altro. Tanto più che il regime di allora, fra le tante tasse, ne aveva inventata una che era tutto un programma di «impegno sociale»: la tassa sul celibato . Insomma essere celibe era una colpa e pertanto lo Stato si difendeva contro quella colpa del cittadino e puniva l'incorreggibile celibe con una tassa da pagare tutti gli anni presso l'odiosissima Esattoria.

Ora, per lo scapolone ricco o comunque benestante, pagare la tassa non era una difficoltà economica, sebbene pure lui mal sopportasse l'ingiusta condanna, ma per il povero giovane contadino era, oltre che un'angheria, una seria preoccupazione economica: era, insomma una tassa sulla miseria. Sì, perché non è che il giovane bracciante o figlio di un modesto metatiere disdegnasse la moglie, anzi! Ma era costretto a rinunciarvi perché non avrebbe saputo come mantenerla e poi c'era da pensare ai figli che immancabilmente si sarebbero presentati come una somma dell'addizione maritale.

E nonostante le tante difficoltà, ragazze e giovanotti non rinunciavano alla speranza di accasarsi; prima o poi. Le occasioni offerte per incontri che favorissero i fidanzamenti, dapprima nascosti e poi, se tutto andava bene, «ufficiali», e quindi una prospettiva di matrimonio, erano le feste paesane, le serate danzanti come nel tempo del carnevale, o un matrimonio, un battesimo: tutte feste che comprendevano danze a suon di chitarre e mandolini e che davano occasione ai giovani di avvicinarsi, conoscersi e scambiarsi le loro simpatie e forse chissà... un giorno il matrimonio! Le feste religiose vano, i parenti e gli amici erano a chiedersi: «idda chi ci porta pi doti? E iddu?» E così facevano i conti di quanti lenzuoli, asciugamani e quant' altro capo di biancheria portava la ragazza, e quanto terreno portava, se lo portava, lui. Una ragazza che sapeva fare di ricamo, dunque, era già una privilegiata. Il desiderio più vivo per una ragazza, non dimentichiamolo, era il matrimonio!

Non era facile, ma ci provavano tutte! «Accasarsi» era la sola via d'uscita per una povera figlia di contadini e per la famiglia: una volta sposata, sarebbe stata una bocca in meno da sfamare. Per le ragazze benestanti, invece, il matrimonio era la soddisfazione di non morire zitelle, specie se non erano granché belle.

Ma credete voi che fosse così facile trovare marito a una figliola? Non che non ci fossero giovani scapoli disposti a impalmare qualche buona creatura che anzi, non aspettavano altro. Tanto più che il regime di allora, fra le tante tasse, ne aveva inventata una che era tutto un programma di «impegno sociale»: la tassa sul celibato. Insomma essere celibe era una colpa e pertanto lo Stato si difendeva contro quella colpa del cittadino e puniva l'incorreggibile celibe con una tassa da pagare tutti gli anni presso l'odiosissima Esattoria.

Ora, per lo scapolone ricco o comunque benestante, pagare la tassa non era una difficoltà economica, sebbene pure lui mal sopportasse l'ingiusta condanna, ma per il povero giovane contadino era, oltre che un'angheria, una seria preoccupazione economica: era, insomma una tassa sulla miseria. Sì, perché non è che il giovane bracciante o figlio di un modesto metatiere disdegnasse la moglie, anzi! Ma era costretto a rinunciarvi perché non avrebbe saputo come mantenerla e poi c'era da pensare ai figli che immancabilmente si sarebbero presentati come una somma dell'addizione maritale.

E nonostante le tante difficoltà, ragazze e giovanotti non rinunciavano alla speranza di accasarsi; prima o poi. Le occasioni offerte per incontri che favorissero i fidanzamenti, dapprima nascosti e poi, se tutto andava bene, «ufficiali», e quindi una prospettiva di matrimonio, erano le feste paesane, le serate danzanti come nel tempo del carnevale, o un matrimonio, un battesimo: tutte feste che comprendevano danze a suon di chitarre e mandolini e che davano occasione ai giovani di avvicinarsi, conoscersi e scambiarsi le loro simpatie e forse chissà... un giorno il matrimonio! Le feste religiose poi, erano le grandi occasioni che potevano dare origine a combinazioni matrimoniali.
Le feste! L'argomento matrimonio e le feste mi rammenta un fatto accaduto a Lalia nel corso di una serata dedicata alla festa dell' Assunta.

Si celebrava con solennità e con larga partecipazione di popolo che se ne faceva interprete e organizzatore. In ogni quartiere la gente allestiva con spirito religioso e con un tocco di fantasia, l'altare; un altare alla buona, piccolo, naturalmente, ma bene addobbato, nel quale, oltre ad una statuetta dell'immagine dell' Assunta, c'erano molti fiori e ceri e lumini che nel buio della sera spiccavano, creando una carezzevole suggestione. Quel tremolìo delle fiammelle mosse dalla lieve brezza della sera, quell' odore di fiori che inondava l'aria, tutto condensato in quel buio che avvolgeva le strade, era il segno della devozione vissuta nella semplicità popolare. A me faceva pensare alla storia dei primi cristiani, così come l'avevo studiata nei libri scolastici, quando si radunavano, nella clandestinità, a piccoli gruppi, nelle case o nelle grotte, al lume delle fiaccole, per comunicarsi la fede.

Le donne si radunavano attorno al piccolo altare, sedute sulle sedie che ciascun d'esse si portava da casa, e cantavano inni all'Assunta. Di un inno mi ricordo poche parole... «Oh gran Madre in cielo assunta...» con una musicalità accorata, ricca di preghiera. Sono le sole parole che ricordo, ma quel canto, anche se non di rado a volte sfuggiva qualche nota stonata, mi piaceva, e ancora oggi, qualche volta mi sorprendo a fischiare quel motivo. Mi genera emozione, mi riporta alle cose di un tempo, ai pensieri semplici, genuini della mia gente.

I giovanotti si schieravano davanti al gruppo corale, appoggiati a un muro: erano come rapiti... Rapiti non tanto dalle cantilene, piuttosto attratti dalle ragazze che, a loro volta, cercavano con gli occhi di scorgere, di individuare, pur nel buio, gli occhi, il viso del giovane che più attraeva.Ma i giovanotti non guardavano solo gli occhi delle donne, che, a cagione delle gonne piuttosto strettine e corte, lasciavano scorgere un pezzettino dei ginocchi.

Quel pezzettino aguzzava la fantasia galoppante dei giovani. E di tanta fantasia avevano un gran sospetto le donne le quali, ogni tanto con discrezione tentavano di tirare giù la gonna, nella vana speranza di mettere d'accordo la gonna corta con quei benedetti ginocchi che però si ostinavano a rimanere scoperti; non tanto veh, ma a sufficienza per non far desistere quei giovinastri impenitenti. Alla gonna corta si facevano complici le calze che giungevano a coprire le gambe fin sotto i ginocchi.

Le calze erano tenute ferme da un laccettino di cotone che ogni tanto però, manco a farlo apposta, si scioglieva, lasciando cadere la calza che, apriti cielo, metteva a nudo nientemeno che tutta la gamba; facendo arrossire la povera malcapitata che doveva affrettarsi a tirarla su, sperando che quegli occhi indagatori dei giovani non se ne avvedessero.


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