donna Jola

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 06/12/2005
<b> donna Jola </b>

donna Jola


tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30 -’40.
Per la gentile concessione alla divulgazione telematica del libro, si ringraziano sia gli Eredi dell’Autore sia l’Amministrazione comunale di Alia, che nel 1997 ne ha curato la prima edizione.


In quel quartiere viveva una strana coppia che attirava l' attenzione morbosa della gente: donnaJola e Franciscu, suo compagno.
L'attrazione vera era lei, donna Jola: una donna esile, quasi trasparente, come i suoi vestiti fiorettati, leggeri, di'una certa eleganza, seppure stravaganti per quei tempi e per quell' ambiente di rozzi contadini. Era l'oggetto delle attenzioni di tutti, ma specialmente delle donne, abituate com'erano a portare sempre lo scialle in testa e col quale si coprivano anche parte del viso, che pareva una specie di chador, come usano le donne musulmane; e il fazzoletto di tela nera legato stretto alla fronte, le calze di cotone grosso, trattenute sotto il ginocchio da una striscia di tela o cordoncino.

Donna Jola aveva una certa attenuante per quella sua maniera stravagante di vestire: non era di Lalia, né siciliana e, a pensarci bene, forse neanche italiana, visto che era triestina che, a parte le vicende politico-militari della prima guerra mondiale, sino a pochi anni prima era territorio austriaco, e quindi Jola era nata e vissuta cittadina, suddita di Cecco Beppe.
Questo le dava, diciamo, diritto di «extraterritorialità», diritto, insomma, di essere diversa dagli indigeni. Donna Jola portava scarpe col tacco alto, sebbene non si capisse come facesse a camminare per quelle strade fatte di pietre «sdirrubate», dove era già arduo camminare con gli scarponi chiodati; si imbellettava le labbra di un rosso fuoco e pure le gote, e si incipriava che pareva una bambola di Bisquit.

Aveva comportamenti fini, delicati che cozzavano contro i modi rudi della gente del paese. La maggiore ostilità le veniva dalle donne, non perché la Jola fosse una mangiatrice d'uomini ché, poverina, non si azzardava neppure a guardarli; erano gli uomini che la guardavano, ammiccavano fra loro significatamente quando ella passava per le strade. E questo ammiccamento dava fastidio alle donne: erano, insomma, gelose.

Come era finita quella donna a Lalia? Colpa della maledetta guerra '15-'18. Sì, perché Franciscu aveva fatto la guerra per liberare Trieste che, come si sa o almeno come ci hanno fatto credere, non vedeva l'ora di essere liberata. Franciscu a Trieste c'era stato; magari non avrà capito come mai e perché lo avessero sbalzato dalle porte dell' Africa in su il Carso, ma c'era stato pure lui a fare la guerra. Ed è lì che aveva incontrato Jola, divenuta poi a Lalia «donna» Jola, un «don» regalatole dalla gente, non per diritto, di censo o di casta, o per rispetto di Franciscu che «don» non era davvero, ma perché Jola non era «gnira», e al mio paese la gente se non è (pardon, se non era) «gnira» Peppa o «su» Franciscu, era «don», un titolo molto ambito, ma a pochissimi riservato.

La giovane Jola, carina, fine, delicata, aveva fatto perdere la testa al fante Franciscu che l'aveva, chissà come, conquistata; le aveva parlato della sua terra, del suo paese tutto sole; magari avrà un po' esagerato sulle sue reali condizioni economiche e sociali. Sta di fatto che Jola si deve essere convinta e lo seguì a guerra finita. Lo seguì perché l'amava, per spirito di avventura o per riconoscenza al soldato venuto da così lontano - che neppure lei sapeva bene quanto lontano - e che aveva liberato la sua Trieste? Mah! Di fatto è che Jola da Trieste venne a trapiantarsi in quello sperduto paese. Non sappiamo quale fosse stata la reazione di Jola quando scoprì Lalia, dove c'erano più muli e maiali e galline che uomini, ma non è difficile immaginare quale delusione dovette provare, quando entrò in quella piccola, unica stanza che formava con la stalla tutto l'appartamento di Franciscu, un ambiente senza luce elettrica, fiocamente illuminata da una candela o da un lume a petrolio.

E Francesco (per Jola, Ciccu o Franciscu per gli aliesi) si rivelò subito un villano incallito, rozzo e soprattutto manesco. E donna Jola, ormai prigioniera di quella nuova inaspettata e insospettata realtà dovette credere di trovarsi fuori dal mondo, così lontano dalla sua città natia da credere che ormai le fosse impossibile venirne fuori; considerandosi, pertanto, condannata vita natural durante a restare in mezzo ai maiali, alle galline e soprattutto a subire le manieracce, le brutalità di Francesco di cui, la poverina, nascostamente soleva dire: «Francesco mena, mena Francesco!»

Erano le sole parole che riuscisse a comunicare e solamente quelle parole riuscivano comprensibili agli aliesi (a parte quel «mena» che forse a senso dovettero intendere che volesse significare «picchia»), perché la delicata eterea Jola parlava solo l'italiano, anzi triestino, che era per i locali una lingua stramba; e lei, la triestina, non capiva un accidente del siciliano e dell'aliese per giunta. Non aveva rapporti con la gente che, anzi, la guardava con distacco e forse la considerava una poco di buono per via di tutti quei trucchi suI viso, quei tacchi alti, quei vestiti stravaganti, dai colori vivaci e sgargianti che pareva una carnevalata. E lei, poverina, chiusa in quella prigione senza sbarre,
sognava la sua Trieste e S. Giusto: a svegliarla pensava Francesco con le sue «menate»; riportandola così alla realtà.
La donna Jola che aveva suscitato tanta ironia e anche un pizzico di invidia per quella sua eleganza e anche perché era straniera, diversa insomma, e nessuno era riuscito a,capirla, quella donna, col tempo, per tutto quel suo misero destino, che tutti conoscevano, aveva finito per generare solo pietà nella gente.

E un brutto giorno di un inverno particolarmente rigido, Jola si ammalò gravemente, e di lì a poco morì. Sì, la bambola di Bisquit, colei che nessuno capiva quando parlava, e lei nessuno capiva, era morta.

Povera donna Jola che, nonostante la quasi ostilità della gente, aveva avuto per tutti sempre un sorriso, una cortesia; specie per i bambini che amava carezzare, quando le mamme glielo consentivano, perché accadeva anche che qualche madre lo impedisse traendo a sé il figliolo, coprendolo con lo scialle perché quella donna «viziata» non toccasse quel suo pargolo col moccio sul naso che se lo strofinava sulla manica della giacchetta.

Toccò anche a me ricevere una carezza da donna Jola, una volta che la incontrai sulla strada dritta: ma io non mi ritrassi e ricordo che essendo in compagnia di mia sorella, questa rispose a quel gesto gentile con un sorriso. Forse l'unico sorriso ricevuto in quel paese che per lei era stato un inferno.

A Francesco venne a mancare l'oggetto dei suoi sfoghi maneschi; e non è da credere che la poveretta gliene desse motivo. No! Francesco menava perché... E non era il solo che picchiasse la propria donna. Molti lo facevano per dare prova del loro prestigio, della loro autorità, avendo la supremazia del comando che riduce all' obbedienza la donna.




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