LE VACANZE ESTIVE

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 08/12/2005
<b> LE VACANZE  ESTIVE</b>

LE VACANZE ESTIVE



tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30 -’40.
Per la gentile concessione alla divulgazione telematica del libro, si ringraziano sia gli Eredi dell’Autore sia l’Amministrazione comunale di Alia, che nel 1997 ne ha curato la prima edizione.

I cugini e mastru Turiddu


Durante le vacanze scolastiche vivevo in un' atmosfera eccitante, sempre in attesa di chissà quali novità che mi avrebbero aperto nuovi orizzonti allietanti. Invece ogni estate era sempre uguale. Ma c'era un accadimento che, sebbene fosse ormai divenuto consueto, mi dava però sensazioni sempre nuove, sensazioni che io attendevo ogni estate come fosse la prima volta. All'inizio delle vacanze giungevano da Palermo i cugini Aldo, Dora e Ugo coi loro genitori, zio Castrense e zia Orestina: venivano a Lalia per godersi la villeggiatura - come si diceva allora delle ferie d'oggi - e l'aria buona. La loro presenza era un diversivo che rompeva la monotonia della mia vita. Lo zio Castrense era uno dei tanti fratelli della nonna Emilia; ma i più vivevano a Palermo e a Roma; solo Nino, un vecchio scapolone, e due sorelle vivevano a Lalia. Venivano a trovarci tutti, ma zio Castrense era quello che veniva più regolarmente a Lalia tutti gli anni, puntualmente nel tempo delle vacanze. Lo zio, infatti, era insegnante.

Mio fratello Giulio e io lo aspettavamo con entusiasmo perché con lui venivano i cugini coi quali avremmo trascorso lietamente le vacanze. Zio Castrense non era uomo molto loquace, anzi era piuttosto riservato, taciturno; metteva quasi soggezione, sebbene fosse di una delicatezza e di una bontà eccezionali. La moglie, invece, era una donna allegra, ed aveva una parlantina che a starci dietro era una fatica. Come ho già detto lo zio era insegnante elementare a Palermo, ma a Lalia tutti lo chiamavano «professore», un titolo di maggior riguardo, visto che egli era un autore di libri scolastici, in uso in quel tempo. I miei coetanei ricorderanno quei sussidiari sui quali leggevamo tanti episodi, fatti educativi, nozioni istruttive, e ricorderanno che c'erano dei racconti dove per protagonisti si trovavano due birichini: Aldo e Dora. Essi erano diventati i bambini più famosi. Immaginarsi, quindi, per noi trascorrere un mese di vacanze con i cugini tanto famosi.

Lo zio Castrense e la famiglia amavano trascorrere il tempo delle vacanze in campagna, in una casa rustica al bevaio del bosco, del quale ho già avuto occasione di parlare. Aggiungerò soltanto che l'amena località aveva un' aria salubre, un verde carezzevole che gareggiava con lo splendore dei raggi del sole. E poi tanta frutta saporita e una quiete immacolata che ti rapiva l'animo; ed inoltre aveva il privilegio di non trovarsi molto distante dal paese.

Mio fratello e io si andava tutti i giorni a trovare i cugini. Aldo era il più grande, Dora lo seguiva di qualche anno, il più piccolo era Ugo che noi cercavamo di tenere un po' in disparte per non coinvolgerlo nelle nostre ardite birichinate. Aldo era il più scatenato e Dora aveva il più bel sorriso del mondo e due occhi di brace che divoravano il creato. Dora, quando non era nostra «complice», trascorreva lunghe ore con mia sorella Emilia (credo fossero coetanee) a vagare per il paese, salendo e scendendo per quelle antiche strade.

Oggetto dei nostri divertimenti era mastru Turiddu Griddu e il suo campo di cocomeri e meloni. Mastru Turiddu era un personaggio piuttosto strambo, carattere irritabile, modi focosi, e soprattutto era noto in paese per le sue stravaganze e la sua preconcetta ostilità verso i ragazzi; non che non ne avesse ragione, ché il poveretto era oggetto di scherzi un po' troppo spinti. Ma non si può dire che fosse un violento, anzi era innocuo, se non stuzzicato. Un uomo corpulento, viso piuttosto simpatico dove campeggiavano due occhi neri che si muovevano continuamente come «taddariti». Viveva solo e per lo più sempre in campagna dove, oltre a possedere un bel pezzo di terreno nella zona del bevaio del bosco, aveva pure una casetta. Raramente veniva in paese, ma quando veniva era per lui una disperazione, per via dei ragazzi che lo canzonavano. Mastru Turiddu era stato non so quanti anni in America, Stati Uniti, da dove era tornato forse per nostalgia del suo paese, ma avendo lasciato in America l'animo e, ahimé, anche la mente.

Suo argomento principale, quando era in vena di parlare con la gente (cosa assai rara, per la verità) era l'America, e ne parlava sempre come se si trovasse ancora colà: parlava, parlava e si allontanava dalla sua realtà; un innamorato di quel paese d'oltre Oceano. Non amava, come già detto, i bambini, anzi in ognuno d'essi egli vedeva un potenziale suo nemico. I ragazzi, è vero, lo sbeffeggiavano, qualche volta gli tiravano i sassi, ed egli cercava di reagire contro d'essi, minacciandoli, inseguendoli, e quelli, mantenendosi a distanza di sicurezza, naturalmente se la davano a gambe, ma quando si accorgeva che le forze non lo sorreggevano, allora mastru Turiddu si fermava di botto, assumendo un atteggiamento di sfida, quasi guerresco, una posizione di chi si appresta a tirar di scherma: un passo avanti col ginocchio piegato e il braccio destro levato in direzione dei ragazzi, battendo con forza il piede per terra e muovendo il braccio teso come se impugnasse una spada.

Imprecava con forza contro di essi, usando un linguaggio incomprensibile, che per lui era «americano», ma che in realtà non aveva alcun senso, come: «a terra devuli» (dall'inglese «devil», diavolo?), ripetendo più volte la parola con voce sempre più minacciosa, con sempre più veemenza. Allora i ragazzi facevano finta di essere rimasti colpiti dall' anatema e cadevano a terra. E lui soddisfatto si disarmava, considerandosi vittorioso; per cui assumeva un'espressione di soddisfazione che pareva volesse dire: vi ho vinto, quindi vi perdono! Infatti, dopo averli osservati con un sorriso di commiserazione, volgeva loro le spalle e lentamente si allontanava a testa china, come fosse stanco della lotta sostenuta contro quei «devuli». Questo il conflitto continuo tra mastru Turiddu e i ragazzi, in vena di passare il tempo, così per divertirsi.

E anche per noi, nel dolce far nulla vacanziero, mastru Turiddu era uno svago, e il suo orto di cocomeri era oggetto di nostre scorribande. La sua casa e l’orto non erano molto distanti dalla casa in cui trascorreva le vacanze zio Castrense, e qualche volta, nelle ore che speravamo mastru Turiddu, stremato dal caldo, fosse a fare il pisolino, noi quatti quatti, chini e silenziosi, come fanti all'assalto della collina nemica, entravamo nell' orto e coglievamo qualche cocomero; più per celia ,che per voglia del frutto; Ma mastru Turiddu non dormiva e improvvisamente lo vedevamo apparire davanti alla porta. Urlando e bestemmiando si lanciava contro di noi che, presi dal panico, ci davamo alla fuga, abbandonando la preda. Poi egli desisteva, vinto dalla stanchezza: si fermava, ansando come un mantice, pronunciava frasi che noi non udivamo, e infine ci abbandonava, tornandosene a casa. Più volte lo vedemmo accostarsi a un albero di gelso, posto proprio accanto alla sua casetta, e parlare all' albero; ma costretti a tenerci a debita distanza non avevamo mai potuto ascoltare il monologo.

Un giorno... Quel giorno mi è sempre rimasto in mente, sento ancora 1'affanno, l'ansia, la paura che provai.
Come al solito quel giorno varcammo la frontiera dell' orto di mastru Turiddu per raccogliere un melone giallo che era lì, tutto bello, luccicante sotto i raggi del sole, che pareva proprio stanco di aspettare d'essere raccolto. All'impresa quella volta aveva voluto partecipare il piccolo Ugo che non essendo sciolto nel camminare, specie fra le zolle e fra le erbacce, si muoveva a stento. Aldo, quel giorno aveva tentato di tutto per persuaderlo a rinunciare e a starsene a casa, e si era persino arrabbiato, e siccome Aldo era un po' balbuziente, quando si arrabbiava le parole uscivano dalla sua bocca più pasticciate e non si capiva nulla. Ma Ugo non solo non si lasciò intimidire dalla balbuzie di Aldo, ma anzi si difese col ricatto: se non mi fate partecipare dirò alla mamma e a papà che voi...

A questo punto Dora che verso Ugo era incline all'arrendevolezza, un'inclinazione che sapeva tanto di materno, ci persuase a farlo partecipare. E ce 1'avremmo fatta senza dare sospetto a mastru Turiddu, se Ugo, improvvisamente, mentre eravamo nel bel mezzo dell'impresa, non si fosse messo a gridare: un serpente! Bloccandoci azione e fiato. Ci voltammo verso di lui e lo vedemmo disperato, terrorizzato. Tornammo indietro, in tempo per vedere fuggire il «serpente» che, non essendo tale, per la paura se l'era filata via. Si trattava di una innocua serpe lunga, che a Lalia si chiamano «scursuna».

Ma l'urlo di Ugo aveva scosso mastru Turiddu che come una furia uscì dalla casa, impugnando una falce brandendola in aria e lanciandosi come un ossesso contro di noi come se ci volesse staccare la testa. E siccome ormai ci cono sceva e ci chiamava per nome a uno a uno, minacciando tremenda vendetta, noi, che non avevamo mai visto mastru Turiddu armato di falce, gettammo a terra il melone e via a gambe levate. Scappammo in ordine sparso e senza un indirizzo preciso, calpestando cocomeri e quanto altro incontrava la nostra disperazione, riducendo quel bell' orto come i campi di Agnese, di manzoniana memoria, dopo il passaggio dei lanzichenecchi. E mastro Turi appresso ,a noi, urlando e brandendo la falce.

Ce l'avremmo fatta a distaccarlo e ad uscire dai suoi confini, se ancora Ugo, con la paura in corpo e con quel suo impacciato sgambettare, non fosse caduto, facendosi così raggiungere dall'inseguitore. Fu giocoforza fermarci. Vedemmo allora mastro Turiddu avvicinarsi a Ugo con la falce in mano levata a mezz'aria, come se stesse per colpire il piccolo che urlava intanto come un vitello al macello.

Come un sol uomo (si fa per dire!) tutti e quattro corremmo verso Ugo, pronti a fare scudo contro quella falce minacciosa. Eravamo anche noi spaventati ma decisi a lottare contro il «guerriero» mastro Turiddu il quale, con gli occhi sbarrati, il fiato grosso per la corsa, aveva assunto la solita posizione, gamba in avanti piegata e il braccio con la falce alzato, e rivolto verso Ugo, prono a terra, aveva cominciato a pronunciare la fatidica frase magica «atterra devuli»; e noi a pregare,.a supplicare che non colpisse il piccolo, piuttosto noi.

«Mastru Turiddu»; disse Dora, avanzando come una Giovanna d'Arco, ponendosi tra il vendicatore e la vittima urlante «colpite me! »
A quel punto, come per un tacito accordo Aldo e io facemmo un passo avanti, riparando coi nostri corpi Dora e Ugo, offrendoci cavallerescamente al sacrificio. Eravamo a due passi da mastru Turiddu che vedendoci così decisi, ebbe un attimo di smarrimento e la sua voce si fece meno violenta, perse ardore, impeto, sino a tacere completamente. Lo vedemmo abbassare il braccio, mentre ci guardava con gli occhi ancora accesi di rabbia. Rimanemmo a fissarci, lui noi e noi lui, ma se egli mostrava rabbia mista a indecisione, noi lo guardavamo «come chi muto un gran favor domanda e teme che concesso non gli sia».

Una paura matta! Ugo aveva smesso di urlare, ma continuava a piagnucolare. Infine mastru Turiddu si accostò a un piccolo albero di pere S. Giovanni, si portò una mano all' orecchio destro e lo udimmo: «Pronto signor presidente...» Noi ci guardammo con espressione assurda, come per trovare l'uno nell' altro una spiegazione. Mastru Turiddu faceva come se noi non ci fossimo: «Signor presidente, sono sempre gli stessi» e via con la citazione dei nostri nomi, come se facesse l'appello davanti a un Tribunale. «Un muluni, signor presidente; azzorrait (that's all right?), agli ordini signor presidente, come dite voi, signor presidente». E giù una bestemmia nel suo linguaggio «americano». Quindi si allontanò dall' albero, senza neppure guardarci, a passo misurato, tenendo la falce in mano volta in basso, camminando lungo i filari di pomodoro, verso la sua casetta.

Noi come allocchiti lo seguimmo con gli occhi, sino a quando la sua figura non venne quasi sommersa da un campo di girasole che faceva da trincea ira l'orto e la sua dimora. Poi scoppiammo a ridere, meno Ugo che continuò a stropicciarsi gli occhi. Ma di quella conversazione col «presidente» non avevamo capito niente. Più tardi venimmo a sapere che mastru Turiddu, quando doveva prendere una decisione che lo metteva in imbarazzo, «telefonava», nei modi che abbiamo visto, al presidente degli Stati Uniti al quale chiedeva come dovesse comportarsi. Mastru Turiddu faceva tutto da sé, domande e risposte.

E per nostra fortuna le risposte del «presidente» erano state a noi favorevoli: assoluzione! Mastru Turiddu in America non aveva imparato una sola parola di inglese, ecco allora che storpiava le parole, per noi strane e incomprensibili, ma,per lui perfetto inglese. Ci fu poi detto che alcuni giovinastri, in vena di divertirsi alle spalle di mastru Turiddu, qualche volta si nascondevano dietro l'albero di gelso e, spacciandosi per il «presidente» chiamavano il povero diavolo e gli ordinavano di offrire quanto avessero richiesto i giovani che mandava nel suo orto. Ed egli, rispettoso, obbediva!

L'avventura si era conclusa abbastanza bene, ma a sera Ugo fu colto da un febbrone che allarmò la zia Orestina la quale non sapeva spiegarsi quella febbre. Aldo e Dora avevano un' altra febbre dentro: la paura che Ugo raccontasse quanto era accaduto. E si davano daffare per dare una spiegazione di quella febbre: avrà mangiato frutta non matura o troppo cocomero... Sì, deve essere stato proprio quello. E la madre: ma oggi non abbiamo mangiato cocomero. E da qui ebbe inizio un vero e proprio interrogatorio di terzo grado: dove avete mangiato cocomeri, sapete che non dovete accettare nulla da nessuno... E così via. Aldo e Dora resistettero, farfugliando qualcosa, ma non Ugo che per effetto della febbre, nel delirio, raccontò per filo e per segno come si erano svolti i fatti: del melone, di mastru Turiddu e della falce, invocando che non l' ammazzasse!
La zia Orestina, in preda all' agitazione, chiamò il marito: Castrense!
E lo zio che solitamente si disinteressava di tutto, preso com'era in quel momento dal testo di un classico latino, venne, stancamente a calmare la moglie: - Ma no, nessuno lo voleva uccidere, sono fantasie di bambini, o forse mastru Turiddu avrà fatto per mettergli paura, per impedire ai più grandicelli... E guardò Aldo e Dora che a loro volta abbassarono gli occhi. " È un po' matto mastru Turiddu, ma è innocuo! "

Zio Castrense aveva capito che noi ragazzi ci divertivamo a portar via qualche cocomero dall' orto di mastru Turiddu, per fargli dispetti, per farlo arrabbiare e vederlo fare il guerriero; ma lo considerava un gioco. Infatti, ogni tanto, per compensare mastru Turiddu, comprava una scatola di sigari toscani e gliene faceva dono. Tentò la moglie di allungare il discorso, ma il marito si immerse nella lettura e lei dovette desistere. La zia Orestina, oltre a parlare a ruota libera, aveva un'altra fissazione: era fascista, o meglio, come diceva lei, mussoliniana. O forse quell' ammirazione per il Duce, era dettata da una certa riconoscenza perché il regime favoriva il marito concedendogli licenza di scrivere i libri scolastici... Chissà! Ma di zio Castrense non si seppe mai né che fosse fascista né che non lo fosse: era uno studioso; e soprattutto un galantuomo e un signore.
Da quel giorno ci guardammo bene dal fare dispetti a mastru Turiddu: ci divertivamo in modo diverso, soprattutto facevamo lunghe passeggiate nella campagna, giocavamo a nascondino o leggevamo sdraiati all' ombra degli alberi.


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