JACHINU L‘UORVU

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 08/12/2005
<b> JACHINU  L‘UORVU</b>

JACHINU L‘UORVU



tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30 -’40.
Per la gentile concessione alla divulgazione telematica del libro, si ringraziano sia gli Eredi dell’Autore sia l’Amministrazione comunale di Alia, che nel 1997 ne ha curato la prima edizione.


Oh, io scrivo, scrivo e la mia mente galoppa lungo il sentiero di tanti altri ricordi, mi richiama altre immagini, personaggi, situazioni che popolarono il mio tempo.
Ecco, per esempio, un personaggio che mi si affaccia alla mente: Jachinu (Gioacchino) «l'uorvu», una figura mite, silenziosa, che passava per le strade del paese quasi inosservato. Un uomo alto, robusto, un viso largo che metteva in mostra i baffoni ben curati, come ben curato era il modo di vestire, e sempre profumato.

Era cieco, credo dalla nascita: i suoi occhi, quando li apriva, erano grossi, di un bianco celeste che fissavano il vuoto come se volessero uscire dall' orbita, come per liberarsi dalla coltre di buio che li circondava. Occhi spenti, inespressivi che trasformavano il suo volto sino a farne una maschera impressionante. Egli girava per le strade servendosi di un grosso bastone e per maggior sicurezza procedeva rasentando i muri delle case, toccandoli con una mano la quale in tal modo faceva da bussola, da strumento di orientamento.

Viveva con una sorella, la «zia Pidda», una donna mite sempre disposta a donare un sorriso che io ricordo piuttosto malinconico, ma incline per la sua benevolenza a farsi amare da tutti. I suoi modi gentili, il modo di porgere educato, non privo di una certa finezza erano la testimonianza della sua origine sociale di tutto rispetto; del resto anche il fratello, nonostante la sua cecità aveva un portamento che, pur nella sua incertezza, nella sua insicurezza, mostrava un certo stile che imponeva riguardo.

Sì, quando Jachinu passava per le strade lasciava una scia di profumo delicato. Era il profumo che emanava dalle saponette che teneva nelle tasche della sua giacca. Perché Jachinu l'uorvu, con discrezione e solo limitatamente ad alcune famiglie, soprattutto fra i numerosi parenti, vendeva saponette a domicilio. Non che lo facesse spinto da un bisogno economico, perché egli era, anzi, un benestante, ma quello era il suo hobby, il modo di sentirsi vivo, partecipe della vita e, forse, anche di sentirsi utile alla società.

A scadenze fisse egli si portava, come poteva, al domicilio dei suoi clienti, metteva una mano in tasca ed estraeva una saponetta che egli prima di consegnarla, con gesto raffinato, delicato faceva scivolare lentamente sotto il suo naso, come per assicurarsi che quella fosse la saponetta adatta per la cliente, o come se con quel suo gesto volesse garantire la bontà del prodotto.

A scadenza fissata dal suo programma veniva pure a casa mia: arrivato alla «cantunèra» chiamava e chiamava a voce alta il nome di mia nonna Emilia, e allora la nonna o qualche altro membro della famiglia scendeva lungo la strada ripida e quando gli era vicino gli toccava una mano e lo conduceva dove egli chiedeva di andare.

Ebbi anch'io occasione re da guida, da accompagnatore a Jachinu l'uorvu e mi ricordo la sua mano, pulita, liscia, rosea che si toccava con piacere. Un particolare che denotava la sua particolare sensibilità nel riconoscere la persona che lo avvicinava, era quello di prenderti la mano facendola scorrere lentamente, come una carezza sul palmo della sua, e subito ti diceva chi eri, senza mai sbagliarsi. Sono le risorse infinite della natura che qualche volta si rivela perfida quando ti condanna ad una mutilazione che menoma la tua capacità di vivere normalmente, di essere completo, ma ti offre, di contro, altre risorse che suppliscono alla mutilazione inflitta.

Io l'accompagnavo a casa mia dove c'erano la Mamma e mia sorella Mary ad attenderlo. E sempre col solito rito, prima di consegnare la saponetta la odorava. Finita la sua missione, salutava e 1'accompagnatore lo riportava nel punto in cui lo aveva prima ricevuto. da dove egli col bastone in una mano e con l'altra mano che faceva scorrere lungo i muri esterni delle case, riprendeva il suo cammino, con una calma e una sicurezza come se egli ci vedesse.

Così scorreva la vita di Jachinu l'uorvu, con le sole emozioni che gli derivavano da questo contatto con la gente e la sensazione di sentirsi utile attraverso il profumo delle sue saponette.

Ma perché ho richiamato in vita in queste pagine di ricordi, di rivisitazione del passato, questi personaggi?

Non so quale rappresentazione essi avranno nello spirito, nella mente dei lettori, quali immagini si affacceranno e quale senso avranno per essi che vivono così diversamente, in un'epoca così sofisticata. A me essi appaiono tutti, pur nella diversità, nella varietà della loro rappresentazione in quel contesto di vita, come componenti di una medesima famiglia; tutti e ciascuno di loro si sommano ad un' epoca, esprimono i colori di un ambiente, l'articolazione di una società. Per me è stato come guardare una sequenza di immagini attraverso una pellicola che mostra il divenire della vita. Essi servono a identificare una porzione della storia di questo nostro paese. Perché è così che si costruisce la storia vera degli uomini, pezzo per pezzo, immagine per immagine, momenti scarni, inqualificabili apparentemente, ma eloquenti nel loro significato umano.

L'altra, «la Storia» è fatta dall'insieme degli uomini, da tutto un popolo accostato agli avvenimenti che, guarda caso sono rappresentati da guerre, rivoluzioni, eccidi, dove però non è possibile scorgere la vera natura dell' animo dell'uomo, subissato com'è da tutto ciò di cui non ha il controllo, la dimensione vera, autentica della sua partecipazione. lo ho voluto strappare il velo del passato per mostrare ciò di cui altrimenti si perderebbe la memoria storica, la sua incisività nel processo di crescita della nostra società.



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