“ALT AL SUICIDIO ASSISTITO”

Radici & Civiltà

DI MARCO TANIA DI MARCO TANIA Pubblicato il 31/01/2007
<b>“ALT AL SUICIDIO ASSISTITO”</b>

“ALT AL SUICIDIO ASSISTITO”

Tema di riflessione parrocchiale di don Antonino Disclafani con il “Gruppo Giovani” di Alia, nella ricorrenza della “Giornata per la vita”.



Di eutanasìa si parla e si scrive sempre più spesso, segno che la questione sta diventando un problema capillare. Spesso accompagnato da disinformazioni e imprecisioni gravi che sembrano non di poco conto anche in ordine alla formazione di una coscienza adeguata alla gravità dell’argomento.

Innanzitutto si impone una distinzione nettissima tra “eutanasia”e “interruzione di cure straordinarie” (da non confondersi con quelle “ordinarie”, necessarie al sostentamento del malato e al massimo sollievo possibile delle sue sofferenze).

Quando l’interruzione di cure particolari avviene per la constatazione della loro inutilità, se non addirittura della loro dannosità, non si compie eutanasia. Uno dei diritti fondamentali della persona è, infatti, anche quello di poter morire in modo naturale. Morire naturalmente è un diritto-dovere che esclude non solo l’“accanimento terapeutico” ma anche l’altro atteggiamento, apparentemente pietoso, che consiste nel porre fine deliberatamente e direttamente all’esistenza di una persona per toglierla da una condizione di grave sofferenza. E questo può avvenire con un intervento diretto, e cioè quando c’è la somministrazione o iniezione di sostanze tossiche in dose mortali o ricorso a strumenti di varia natura (eutanasia attiva) oppure con un intervento indiretto e cioè quando c’è omissione di terapie e sospensione di terapie ordinarie utili (eutanasia passiva). Sia l’una che l’altra forma di eutanasia si configurano con la gravità di un uccisione.

L’appello all’autonomia è giusto nell’etica, nel diritto e nella politica; ma va considerato “pericoloso” quando lo si riferisce a situazioni di fine vita o quando si riflette alla situazione reali di tanti malati cronici, terminali e in stato di abbandono psicologico e morale.

Nella richiesta di un malato di essere ucciso non dobbiamo leggere, come si fa tanto frettolosamente, la manifestazione di un autonomo esercizio di disponibilità in merito alla propria vita, ma la dichiarazione di essere caduti in uno stato di abbandono, che agli occhi di chi richiede la soppressione eutanasia appare più temibile e più tragico della morte stessa. Praticare l’eutanasia non è rendere omaggio alla libera volontà di una persona che chiede di essere aiutata a morire, ma sanzionare quello stato di abbandono morale e sociale che si avrebbe il dovere (sia da parte delle istituzioni che da parte di tutti gli individui di buona volontà) di combattere strenuamente.

Dopo aver legalizzato l’eutanasia per gli adulti, in Olanda (nel 2004) è stato elaborato e concordato un protocollo per la soppressione eutanasica di neonati e minori, e questo sia nel caso in cui fossero malati terminali (colpiti da patologie tragiche e incurabili) ma anche nel caso in cui fossero colpiti da patologie non mortali, ma gravemente invalidanti… È assolutamente banale, per non dire orribile, sottolineare come il riferimento al principio di autonomia sia del tutto fuori luogo nel caso di neonati e minori. Pochi esempi, come questo, sembrano confermare la fondatezza di quello che in bioetica si chiama il rischio dello slippery slope (PENDIO SCIVOLOSO): una volta accettata la legittimità dell’eutanasia volontaria, in nome del principio di autonomia, si giunge facilmente e rapidamente ad accettarla anche se involontaria, in nome dei principi della compassione o del consenso presunto da parte del paziente alla sua soppressione.

Possiamo concludere che quando si parla di eutanasia si finisce inevitabilmente per citare il “caso Welby”, che davvero commuove e il solo parlarne in chiave teorica (come qui si sta facendo) appare inevitabilmente astratto. Welby nella sua lettera chiedeva di <>.


Quando chiede di essere <> e di <> Welby non intende rifiutare la vita, ma piuttosto di ridurre quanto possibile l’insistenza di terapie inutili e, spesso, disumane. Terapie, in realtà, dettate da clinici che, spinti da un senso di onnipotenza, vorrebbero combattere contro una “morte naturale” di un organismo ormai consunto e privo di forze vitali, prolungando inutilmente a carico del paziente una “vita artificiale” che non è più “vita umana”. Questa oggi riconosciuta come accanimento terapeutico.

È proprio a questa situazione che si riferiscono le sapienti indicazioni suggerite dalla stessa Enciclica Evangelium Vitae, quando afferma che <<è doveroso rinunciare a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e la sua famiglia. In queste situazioni si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte>>.

Per un cristiano deve essere ricordato quanto il Papa Giovanni Paolo II affermava: “ L’eutanasìa è una grave violazione della legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla parola di Dio scritta. Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell’omicidio”.

In conclusione, per un cristiano che vuol essere fedele al comandamento divino <> urge il maturo possesso di una convinzione profonda fondata ed espressa nei tre seguenti punti enunciati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede:

1. Nessuno può attentare alla vita di un uomo innocente senza opporsi all’amore di Dio per lui, senza violar un diritto fondamentale inalienabile, senza commettere, perciò, un crimine di estrema gravità;

2. Ogni uomo ha il dovere di conformare la sua vita al disegno di Dio. Essa gli è affidata come un bene che deve portare i suoi frutti già qui in terra ma trova la sua perfezione soltanto nella vita eterna;

3. La morte volontaria, ossia il suicidio è, pertanto, inaccettabile al pari dell’omicidio: un simile atto costituisce, infatti, da parte dell’uomo, il rifiuto della Sovranità di Dio e del suo amore.

E però da tener presente che già da tempo si registrano tentativi di legalizzare anche in Italia l’eutanasia, seguendo il cammino intrapreso per la legge abortista.
Dovrà essere nostro impegno far sentire con forza la nostra parola di verità, che è parola di sentita umanità…



Contributo di ricerca raccolto da Tania Di Marco





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