Patibolo e salute dell'anima

Radici & Civiltà

DI NATALE PAOLO DI NATALE PAOLO Pubblicato il 07/05/2008
<b> Patibolo e salute dell'anima</b>

Patibolo e salute dell'anima



Il caso di Antonino Genovese giustiziato a Palermo nel 1712



Il 16 marzo del 1712 – mercoledì sera - veniva giustiziato a Palermo, nel Piano della Marina, Antonino Genovese della “ Terra dell 'Alia”.
Questa “Terra” , sebbene, allora, eretta a Comune da meno di un secolo, traeva la sua origine da antichi insediamenti umani. Si ha, infatti, notizia di un contributo militare da essa fornito (859 – 860) in uno degli ultimi tentativi di resistenza all'armata araba guidata da Abbas ibn al – Fadl, che si accingeva alla definitiva conquista della Sicilia ( S. Di Matteo : Storia della Sicilia).


Notizie più certe e precise circa le vicende storiche della “Terra di Lalia” e dei relativi signori feudali datano a partire dal regno di Federico 2° d'Aragona (1296 – 1337). Il 10 ottobre del 1623 venne reso esecutorio il decreto reale di fondazione del Comune di Alia ed ebbe inizio il suo popolamento definitivo ( E. Guccione : Storia di Alia).

L'offerta di condizioni vantaggiose quali l'abitazione, la terra da coltivare , la moratoria dei debiti e, talvolta, anche l'impunità per i ricercati dalla Giustizia, favorirono l'arrivo – tra gli altri - di soggetti non sempre raccomandabili. Questi non mancavano – di certo – in tempi nei quali le classi più deboli vivevano nella più nera miseria e nel degrado sociale.

Nonostante la severa amministrazione della giustizia penale da parte dei primi signori feudali che reggevano il comune, nell'arco di nemmeno un quarantennio (1691 – 1730) ben tre aliesi, su circa 600 abitanti, finirono sul patibolo.
Carlo Cimò fu giustiziato il 28 luglio del 1691, Antonino Genovese il 16 marzo del 1712 e Domenico Arelli il 26 dicembre 1730.
La condanna a morte venne loro inflitta dalla Regia Gran Corte Criminale perché responsabili dei reati di omicidio e rapina.

Ad Antonino Genovese erano stati addebitati “ molti furti ed altri delitti in campagna” nonché “ la nece (= uccisione) del miserando Leonardo di Miceli, alias lo Zincarello” .

Si trattava di delitti ricorrenti nella casistica criminale dei tempi e spesso riconducibili al persistente fenomeno dell'attività di bande delinquenziali che “scorrevano” - come allora si diceva – le campagne siciliane ed, in particolare, quelle del Val di Mazara (Sicilia occidentale). Gli interventi delle autorità, permeabili alla corruzione e ad abusi di ogni genere, si limitavano ad azioni puramente repressive. La sicurezza nelle campagne era inesistente. Viandanti e contadini costituivano le vittime preferite delle bande “scorritrici”, anche se questi ultimi avevano ben poco da offrire alla rapacità degli aggressori.

I “poteri forti” erano costituiti dal baronaggio e dall'alto clero che godevano di privilegi intangibili a danno del popolo che si dibatteva – in generale – nelle angustie di una società economicamente e tecnicamente arretrata, condizionata da un regime latifondistico così diffuso da occupare il 30 per cento della superficie catastale della Sicilia.

Nel territorio di Alia vigeva il regime feudale. Ne era signore il barone Pietro Celestri La Grua il cui casato – ai primi del 1600 – aveva acquistato anche il titolo di marchese su altri feudi di sua proprietà.

Della vittima di Antonino Genovese nulla sappiamo al di là del nome e delle scarne notizie sopra riportate. Il soprannome di “Zingarello” - tuttavia – autorizza ad opinare che si trattasse di persona in giovane età e di condizione sociale marginale.

All'assassino - dopo la cattura, la tortura di rito e la condanna, fu offerta l'occasione di meditare sul suo delitto. Egli, infatti, il 13 marzo del 1712 –domenica sera – fu introdotto nella Cappella della Congregazione del SS. Crocifisso, detta dei “Bianchi” , dal colore dell'abito di cerimonia che indossavano i congregati , per essere disposto “al ben morire” .

Il vice re don Ferrante Gonzaga – più sollecito della salute dell'anima che delle condizioni di vita dei suoi sudditi – aveva istituito nel 1541 l'anzidetta Congregazione con il compito precipuo di curare la salute delle anime di coloro che , condannati alla pena capitale, fossero in attesa dell'esecuzione.

La Compagnia dei Bianchi aveva sede in un complesso edilizio costruito a partire dal 1542 sopra la chiesa di S. Maria della Vittoria, edificata – a suo tempo – nei pressi della vecchia porta cittadina attraverso la quale era entrato vittorioso - nel 1071 - il normanno Roberto il Guiscardo. L'edificio è stato, di recente, restaurato e reso fruibile.

Pronunciata la sentenza capitale e fissata la data dell'esecuzione, il condannato veniva consegnato con “un biglietto di giustizia” ai confrati della Compagnia incaricati del “conforto”. I capitoli ( = regolamenti) della Compagnia disciplinavano , minutamente, la procedura del conforto ed il comportamento che i confrati dovevano osservare con particolare riguardo al loro personale stato di grazia (.....li esortiamo che vi vadino confessati havendo di esercitarsi in una opera così santa e di tanta importanza).
Inoltre, “Li confortatori haveranno di andare del giorno della notitia in li carceri per denuntiarli la morte e confortarli e cossì continuare il secondo, ed il tertio giorno e la precedente notte della Giustitia star tutta con lo afflitto, confortandolo a patientia e mai di canto se li partino per insino che lo afflitto sia condotto al supplitio e quello sia compito” (capitolo del 1542).

L'autorità viceregia appariva oltremodo preoccupata della sorte oltreterrena dei supplizziandi per cui tornava – periodicamente – a ribadire il dovere della Compagnia dei Bianchi di impedire in ogni modo la “perditione delle anime” e “ di fare disponere in buon proposito le anime che hanno da passare da questa vita” , esortandoli alla professione di fede e a disporsi “al ben morire” . Ai recalcitranti venivano minacciate le pene dell'inferno ( M.P. Di Bella – La pura verità - Sellerio, 1999 ).
La drammaticità dell'evento e le condizioni di spirito dei giustiziandi fanno ritenere che ben pochi avessero ancora voglia di resistere all'opera di conversione.
Curare l'anima non costava nulla ai governanti; sollevare il popolo dalle condizioni di miseria e di degrado in cui era costretto a vivere costava, invece, molto e comportava la rinuncia da parte delle classi abbienti e dei governanti ai privilegi di casta nonché agli aspetti più esosi e vessatori del fisco.

Antonino Genovese, esaurito il triduo del conforto, andò incontro al suo destino in un freddo, tardo pomeriggio del mercoledì 16 marzo 1712 .
Lo aveva assistito un collegio composto da due religiosi- 1° e 2° confessore - e due laici confortanti.

Il corteo che accompagnava il condannato verso il patibolo seguiva una disciplina ed un percorso obbligati e quasi rituali. L'apparato e la pompa esteriori assolvevano una funzione ammonitoria. Lo scempio che – talvolta – era riservato al corpo del giustiziato doveva servire da esempio ai delinquenti circa la fine loro riservata e dissuadere i buoni cittadini dall'intraprendere la via del delitto.

Tuttavia, la pena di morte ed il tragico armamentario simbolico e dissuasivo che l'accompagnava non sembra siano stati sufficienti a contenere l 'ormai endemico fenomeno criminale. Ciò prova l'inutilità della pena capitale, come meglio dimostrerà – appena cinquanta anni dopo – Cesare Beccaria; il quale nel 1764 pubblicherà il suo celebre libro “Dei delitti e delle pene” , frutto, tra l'altro, della constatazione di frequenti errori giudiziari, di processi irregolari, della sproporzione e crudeltà delle pene, dell'uso e dell'abuso della tortura – come strumento di inquisizione – e - per dirla in breve – di una Giustizia ingiusta.

L'esecuzione di Antonino Genovese ebbe luogo al Piano della Marina, mediante impiccagione, trattandosi di un semplice popolano.
La distinzione di classe seguiva – allora - gli uomini dalla nascita alla morte. I nobili, anche se delinquenti, meritavano rispetto e la morte veniva loro inflitta mediante decapitazione!
L'appartenenza alla casta privilegiata impediva – poi - che si infierisse con torture supplementari e che il cadavere venisse abbandonato al dileggio e, talvolta, allo smembramento. Ai popolani, invece, accadeva che venissero straziati ed umiliati durante il percorso dalle carceri al patibolo e le loro membra esibite a scopo intimidatorio, specie, quando giustiziati per delitti particolarmente gravi. A loro era riservata la morte per impiccagione o strangolamento.

Antonino Genovese concluse la sua poco edificante esistenza terrena da plebeo quale era vissuto, ma adeguatamente confortato.
A noi - suoi lontani concittadini – non resta che augurarci che abbia, almeno, salvato la sua anima !


Paolo Di Natale -  Enna ' Title=' Enna '> Enna  , 2008 -


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