mai più cacciatore

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SPEDALE MARIO SPEDALE MARIO Pubblicato il 31/10/2008
<b>mai più cacciatore</b>

mai più cacciatore

Il passero e la brutta cornacchia



Quando nascevano i primi passerotti sotto le tegole della casetta dove io abitavo, era segno che la scuola era veramente finita.

Finalmente ero libero di giocare fuori casa, fra i campi ed i sentieri che circondavano il mio piccolo paese di montagna.

Mia madre non mi chiamava più per andare a studiare, ma solo ogni tanto sentivo da lontano la sua voce che mi chiamava perché il pranzo o la cena era pronta.

Io non avevo mai voglia di tornare a casa, ero ormai libero, felice di respirare quell’aria profumata di campagna di fine primavera e d’inizio estate, felice di guardare il nibbio fermo in cielo prima di piombare a terra e cacciare la sua preda.

Anche per me era arrivato il tempo di andare a caccia, la fionda era il mio fucile.

Costruire la fionda non era una cosa facile, ma noi bambini di quel tempo eravamo abituati a costruirci i giocattoli da soli, pertanto bastava tagliare un forcella da una ginestra magari ancora in fiore, legare con il fil di ferro alle sue due estremità due listelli di gomma ricavate da vecchie camere d’aria di bicicletta, legare infine le estremità di queste ultime ad un pezzo di cuoio di forma rettangolare ed opportunamente inciso ed il gioco era fatto, la fionda era stata completata.

Ora bisognava collaudare quella fionda, e dove farlo se non tirando alle campane dell’orologio della chiesa di Santa Rosalia, visto che si trovava vicino casa mia.

Se le campane risuonavano al primo colpo era segno che la fionda era perfetta, altrimenti si portava qualche correzione fin quando le campane venivano colpite, sempre al primo colpo dopo la modifica.

Quando la fionda era pronta iniziava la caccia agli uccelli e da innocenti fanciulli diventavamo temibili cacciatori di passerotti.

Quel pomeriggio, mentre il sole si accingeva a raggiungere la montagna di Roccabusambra e le prime ombre calavano sulle viuzze del mio paese, mi accorsi che non ero il solo a cacciare i passerotti.

Un gruppo di nere cornacchie, cercavano di infilarsi minacciose sotto le tegole di un’antica costruzione, dove nei loro nidi dei piccoli passerotti, nati da qualche settimana, si erano rannicchiati.

Le cornacchie gracchiavano come impazzite, i passeri adulti volavano attorno impauriti e temendo per la sorte dei loro piccoli, cercavano in mille modi di distrarre ed attirare su di loro, le attenzioni di quegli uccellaci neri.

Dal basso, io guardavo impotente quella scena terribile e per allontanare le cornacchie dai nidi dei passerotti, tiravo loro qualche pietra con la mia fionda.

Ben presto le cornacchie ebbero il sopravvento su tutti, una di loro riuscì a penetrare all’interno di un nido, prese un passerotto con il becco e si alzò in volo al di sopra dei tetti delle case per poi posarsi sul campanile della chiesa di Santa Rosalia.

Il passerotto si dibatteva con vigore, ma la cornacchia con molta calma lo mise sotto i propri artigli ed incominciò a beccargli la testa.

I suoi genitori, che avevano seguito in volo il loro piccolo, guardavano disperati quella scena di morte.

Io da terra, seguii prima con lo sguardo e poi correndo, quell’itinerario di terrore fino a raggiungere lo spazio sottostante il campanile della chiesa.

Intanto l’infelice passerotto continuava a dimenarsi ed infine con uno strappo si liberò, lasciando, però, sul becco della brutta cornacchia le piume alle quali era attaccata parte della pelle della sua testolina.

Cadendo dal campanile il passerotto cercò di volare, non vi riuscì perché era la prima volta a farlo, ed infine cadde sul selciato.

La brutta cornacchia tentò di riprendersi a volo il povero passerotto, ma io glielo impedii, tirando come impazzito, contro la bestia nera tutte le pietre che mi capitarono a portata di mano.

Raccolsi da terra, più morto che vivo quel povero uccellino e, nel prenderlo, le mie mani si macchiarono di sangue.

La sua testa era stata scotennata, le piume erano state tolte e l’osso del cranio s’intravedeva attraverso il sangue che usciva copioso.

Corsi subito a casa, che non era lontana, per medicare quel povero infelice che trovava ancora la forza di dimenarsi nel tentativo di liberarsi e raggiungere sicuramente i genitori che, volando da un tetto all’altro, nel frattempo ci seguivano.

Dopo la medicazione, aiutato da mia madre, posi il passerotto nel fondo di un piccolo cesto di canne intrecciate, lo coprii con uno straccio vecchio, usato abitualmente per spolverare i mobili di casa, e ritornai di nuovo sulla strada a giocare.

Intanto incominciava a far buio, il piccolo paese di montagna dove io abitavo sembrava rianimarsi. I contadini a cavallo dei propri muli ritornavano dalla campagna parlando fra di loro a voce alta tra il calpestio cadenzato degli zoccoli sul selciato. Nel frattempo le mogli stavano preparando la cena calda a base di pasta-artigianale'>pasta di grano duro ai propri mariti che, durante la giornata di duro lavoro nei campi, avevano mangiato sicuramente un pezzo di pane e cacio pecorino con qualche oliva e bevuto qualche sorso di vino che forse sapeva d’aceto. Da lontano intanto il paese sembrava che bruciasse per il fumo che si liberava dai tanti camini delle cucine a legna. Si fece notte e le case che prima si erano illuminate quasi all’unisono, ora le luci che si vedevano dalle finestre, si spegnevano ad una ad una.

Anch’io dopo cena andai a letto e quando mi svegliai l’indomani, il mio primo pensiero andò al povero passerotto. Tolsi lo straccio dal cesto ed il passerotto era ancora lì rannicchiato, qualche mollica di pane fu la sua prima colazione a casa mia. Così per tutta la giornata ed i giorni che seguirono, ad intervalli regolari, la mia unica occupazione è stata quella di nutrire il passerotto che appena mi vedeva, apriva subito la bocca come se si trovasse ancora nel nido con i sui genitori.

Quando non ero occupato a dar da mangiare al passero, andavo a caccia di grilli, di mosche e tutto ciò che potesse servire a saziare quel poverino che giorno dopo giorno diventava più grande e più vivace.

Le penne sulla testa non erano ancora cresciute ed era lì evidente una crosta di sangue raggrumato, ma il passerotto incominciava ad agitare le ali come se volesse volare.

Per evitare una sua partenza improvvisa ed a mia insaputa, decisi di metterlo in gabbia.

Appesi la gabbia ad un chiodo davanti la porta di casa mia in alto, per evitare che i gatti ne potessero approfittare, e quel giorno, come facevo sempre, con gli altri bambini andai a giocare in piazza Santa Rosalia, nel quartiere dove io abitavo.

Appena fu l’ora di pranzo, mia madre come al solito mi chiamò, gridando il mio nome davanti la porta di casa ed io, nell’avvicinarmi, notai che sulla gabbia del passerotto si erano posati due passeri adulti.

Il passerotto si agitava , svolazzava da un punto all’altro della gabbia, cercando di trovare un passaggio per uscire.

Era evidente che i genitori avevano trovato il loro piccolo e che il desiderio di quest’ultimo era quello di volare via e ritornare con loro e godersi quella libertà che gli era stata negata.

Chissà come si sarebbe trovato, fuori con gli altri uccelli, ma bisognava rischiare, la gabbia fu da me aperta ed il passerotto prese il volo seguito dai genitori che lo stavano aspettando posati sul tetto della casa di fronte alla mia. Superato quel tetto, il terzetto scomparve alla mia vista nella campagna sottostante.

Passò qualche giorno, ed io continuavo a giocare con la mia fionda che non falliva un colpo.

Ogni giorno facevo buona caccia di uccelletti che finivano legati per il collo, allo spago che tenevo serrato alla cinta dei miei pantaloncini.

Alla fine di ogni giornata di caccia, gli uccelletti spennati e puliti, venivano cucinati opportunamente per allietare la nostra tavola.

La caccia agli uccelletti “di primo volo“ per me era un gioco che incominciava la mattina presto, quasi all’alba. A fatica lasciavo il letto, ma era necessario perché la mattina presto gli uccelli “ di primo volo “ cercavano di lasciare il nido per andare a scoprire il mondo ed io con i gatti del quartiere eravamo lì ad attenderli. All’alba, i passerotti pronti per il primo volo, si affacciavano dai nidi che si trovavano sotto le tegole o nelle crepe dei muri delle vecchie case.

Il passero maschio, fuori del nido, agitava fortemente le ali, mentre la femmina svolazzava attorno al nido, i piccoli che quella mattina dovevano fare il primo volo, si mettevano sul bordo del nido, il padre a questo punto, si allontanava dal nido volando più lontano, poi ritornava cinguettando, poi volava ancora più lontano come per dire al piccolo: hai visto come si fa? Quando il piccolo si decideva, usciva completamente dal nido, passava sulla grondaia ed agitava prima le ali come per simulare il volo, poi spiccava veramente.

Se il passerotto era abbastanza robusto, riusciva a superare la strada che separava il tetto della casa dov’era il nido, dal tetto delle case di fronte, per poi scomparire, accompagnato dai genitori fra gli alberi di mandorle nella campagna sottostante.

Se il passerotto era gracile e poco cresciuto, generalmente l’ultimo nato, dopo aver spiccato il volo, finiva o sull’asfalto o contro il muro della casa di fronte e dopo averlo grattato con le zampette, rimaneva definitivamente a terra fra la polvere.

I genitori che lo seguivano, volavano fino a toccare terra ma quasi mai riuscivano da soli a far risalire il loro piccolo, che all’avvicinarsi di qualche persona o di qualche contadino a cavallo al proprio mulo, si nascondevano fra le pietre o s’infilavano nel buco delle porte ( gattaluoru) che, un tempo, serviva per fare entrare ed uscire i gatti, che andavano a caccia di topi nei magazzini dove i contadini depositavano il raccolto dell’annata.

La sorte di questi ultimi passerotti era sempre incerta, se trovavano la persona caritatevole che, dopo averli rincorsi riuscivano a prenderli, allora venivano buttati sul tetto della prima casa che capitava ed i genitori che da lontano avevano seguito il loro piccolo, lo raggiungevano e continuavano a nutrirlo ancora per diversi giorni, fino a quando era abbastanza forte per cavarsela da solo.

Ma non sempre era così, anzi spesse volte ad attendere i poveri uccelletti che finivano sulla strada, erano i gatti ed i bambini come me che avevano rinunciato al sonno pur di fare un buona caccia.

A volte succedeva però che a buttare dal nido i propri piccoli erano gli stessi genitori. Ciò avveniva perché i passerotti avevano contratto qualche malattia oppure erano pieni di parassiti ( i cosiddetti puddizzuna) che indebolivano quei corpicini. Questi ultimi, non venivano contesi ai gatti, che erano gli unici commensali.

Appena il sole si faceva più alto e la strada si animava di gente, i passeri cessavano i loro tentativi di volo. I genitori continuavano a portare da mangiare a quelli che erano rimasti nel nido ed a seguire da un ramo all’altro, quelli che avevano preso il volo, portando anche a loro da mangiare.

Mentre i passeri adulti seguivano il richiamo dei loro piccoli che avevano già preso il volo e si spostavano da un albero all’altro, io seguivo lo stesso richiamo, armato com’ero della mia fionda. Il cinguettio dei passerotti, che chiamavano i loro genitori, mi era familiare; bastava stare in silenzio fra gli alberi e seguire quel richiamo fino ad arrivare sotto il ramo dove la povera creatura aspettava i genitori che gli portavano da mangiare.

Avvistato il passerotto, che subito si zittiva alla mia vista, bastava armare la fionda con un sassolino che si trovava sul terreno, tirare l’elastico, mirare e lasciare partire la pietra che spesse volte a primo colpo colpiva il passerotto. Quest’ultimo, dopo aver sbattuto da un ramo all’altro finiva morto in mezzo alle frasche. Altre volte succedeva che bisognava tirare più volte prima di colpire il passerotto, che non essendo abituato al volo non si allontanava volando, ma si nascondeva tra i rami restando in silenzio. Anch’io restavo in silenzio e mi nascondevo senza fare rumore. Appena il passerotto ricominciava a chiamare i suoi genitori, allora era possibile avvistarlo e ritentare altri tiri con la fionda fino al suo abbattimento.

Quella mattina, dopo aver scavalcato il muro di fronte casa mia che si trovava accanto alla pesa comunale, mi ritrovai nella campagna “ di Li Vitrinari “, dove “lu Zu Gnazziu “ marito di la “ Za Pippina la Scarpa “ era intento a coltivare “ lu iardinu “.

Un richiamo di passerotto appollaiato sopra un albero, colpì le mie orecchie, a questo richiamo nessuna risposta di passero adulto si fece sentire.

La cosa mi lasciò perplesso, non era possibile che quel passerotto non fosse seguito dai suoi genitori. Il triste cinguettio senza risposta continuò malgrado io facessi rumore fra le frasche sottostanti quell’albero, cercando comunque di non farmi vedere da “ lu Zu Gnazziu “, che era molto vecchio e portava occhiali da vista con le lenti molto spesse. Altre volte sarebbe bastato un semplice fruscìo per fare tacere il passerotto. Il suo silenzio sarebbe servito ad avvisare i genitori della presenza di qualche pericolo ed impedire nello stesso tempo di essere individuati facilmente.

Quella volta scoprire il passerotto imprudente mi fu facile, lui mi guardava dall’alto in basso pigolando tranquillamente come se avesse visto qualcosa o qualcuno da cui non ci fosse nulla da temere.

Presi la fionda, messo il sassetto, stirai l’elastico e dopo aver preso la mira, il colpo partì a forte velocità, colpendo sotto il becco la povera creatura. Qualche istante dopo, il passerotto, dopo aver sbattuto tra i rami cadendo, cadde, fra le frasche ai miei piedi, privo di vita.

Lo raccolsi soddisfatto, ma con mia grande sorpresa mi accorsi che quel passerotto aveva la testa priva di piume e il sangue ancora raggrumato sul cranio. Si era proprio lui, quello che la brutta cornacchia aveva scotennato, quello che io avevo salvato, nutrito e fatto volare, quello che era diventato diverso e che i genitori avevano sicuramente abbandonato.

Fui preso da una grande tristezza ed ai piedi di quell’albero seppellii quella creatura, assieme a quella fionda che avevo tanto amato. Per me la caccia era finita per sempre. Da adulto, non ho mai toccato un fucile da caccia !

Mario Spedale


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