Testimonianze delle comunità aliesi (1860-1932) III^parte

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 09/09/2005
<b>Testimonianze delle comunità aliesi (1860-1932)</b> III^parte

Testimonianze delle comunità aliesi (1860-1932) III^parte



Emigrazione verso gli Usa
Testimonianze delle comunità aliesi (1860-1932)


Tesi di laurea della dott.ssa Cristina Guccione.

III^parte

CAPITOLO I


Alcuni decenni dopo l’Unità d’Italia, tra il 1880 e il 1897, il rapporto emigratorio tra regioni settentrionali e meridionali si invertì. Per cause tra le più svariate, quali povertà dilaganti e delusioni politiche, le regioni del vecchio stato borbonico si spopolarono progressivamente fino alla prima guerra mondiale. Solo la Puglia registra una bassa propensione dei suoi abitanti ad emigrare mentre la Campania al contrario presenta la quota di emigrazione più elevata. Per quel che concerne gli scali nazionali da cui gli italiani partirono verso la rotta degli Stati Uniti d’America i porti più importanti del periodo erano Genova, per gli emigranti delle regioni centro-settentrionali, e Palermo raggiunto soprattutto dai siciliani.

Non mancavano, certamente, altri scali ma si trattava per lo più di situazioni in cui i piroscafi prima di prendere la rotta per la destinazione finale, toccavano anche altri porti italiani tra i quali quelli di Napoli, Trieste e Messina. Vi erano anche gli approdi esteri che però vennero sfruttati dal 7,0% di connazionali per ragioni incerte, forse precedente emigrazione o convenienza economica. Secondo quanto afferma il Sori nel 1885 un biglietto per traversare da Amburgo a New York costava solo 8 dollari. Una somma molto bassa anche rispetto a quella necessaria che permetteva il trasporto via terra dal centro Europa a un suo porto atlantico. Le spese degli emigranti, naturalmente, non si risolvevano solo nel biglietto. Svariati erano i modi in cui esse potevano essere sovvenzionate. I piccoli proprietari terrieri, solitamente vendevano tutto quello che avevano mentre i contadini usufruivano di un sistema creditizio che, spesso, finiva per assoggettarli «all’odiosa trama dell’indebitamento» usuraio . Altri godevano dei vantaggi generati dal flusso migratorio stesso. Amici e parenti mandavano a chiamare gli aspiranti emigranti inviando loro i risparmi o i cosiddetti prepaids, dei biglietti di viaggio prepagati a un costo minore, che vennero soprattutto sfruttati nel mezzogiorno.

Apparentemente il costo minore dei prepaids avrà coinvolto un gran numero di persone, soprattutto quelli più sprovvisti nelle capacità organizzative ma i vantaggi delle loro vendite andavano tutti alle compagnie di navigazione che riservavano ai clienti in questione le peggiori condizioni di viaggio. «Le compagnie ricavavano dai prepaids sia un flusso di entrate nei periodi morti che intervallavano le fisiologiche punte stagionali di espatrio, sia la possibilità di dislocare nel tempo la partenza del prepagante in funzione dell’esigenza di raggiungere il pieno carico dei bastimenti» . 3. L’emigrazione e il Sud Secondo i dati del Balch Institute di Philadelphia, i connazionali sbarcati in America entro 1897 furono 56.268; si tratta di un campione pari a circa il 10% della totale emigrazione italiana verso gli Stati Uniti cui è stato possibile individuare l’anno di sbarco, i dati anagrafici, il comune di provenienza, l’occupazione, l’analfabetismo, il tipo di viaggio affrontato.

Sempre riferendoci all’intervallo 1880-1897 è, infatti, opportuno sottolineare che solo il 14,3% degli emigrati italiani si dirigeva verso l’America mentre la maggior parte dell’emigrazione italiana verteva preferibilmente verso i paesi europei e del bacino mediterraneo. Tenendo conto del flusso migratorio verso gli USA, i primi a partire furono uomini, soprattutto giovani che si muovevano individualmente; un altro gruppo riguardava, invece, i nuclei familiari che potevano emigrare in una sola soluzione o come spesso accadeva in più fasi successive. Inutile sottolineare che la prevalenza di partenze maschili in età adulte è riconducibile a molteplici motivazioni tanto economiche quanto sociali. Una tale discriminazione del sesso si riscontra anche nelle fasce d’età tra i zero e quattro anni e soprattutto per le età anziane.

Le donne furono quelle che più piansero le conseguenze della prima emigrazione. Affrante dalle separazioni familiari, quasi entravano in lutto percependo l’America «come una terra maledetta dove i loro mariti, figli e fidanzati erano alla mercé di un’atmosfera infetta che faceva loro dimenticare il passato italiano» . «Per le donne con il marito in America, il trauma della separazione era aggravato dal problema di come mantenere se stesse e i bambini. I soldi inviati dall’America erano spesso insufficienti a sostenere la famiglia». In mancanza di altro l’unica alternativa alla fame era per loro effettuare lavori agricoli da sempre considerati faticosi. Se nel frattempo, la moglie riceveva una lettera del marito che le chiedeva di raggiungerlo, l’invito era interpretato come un segno d’amore, significativo del fatto che nessuna donna si era frapposta tra loro, ma ciò creava una serie di problemi che la donna di solito non era abituata ad affrontare. In breve tempo, doveva procurarsi i documenti necessari per lei e i figli, vendere tutti i beni e fare qualsiasi cosa fosse necessaria per il viaggio. Non tutte le donne erano, pertanto, disponibili a raggiungere i mariti; era frequente che alcune di loro inventassero scuse ripetute per rimandare la partenza, fino a far perdere la pazienza al marito che minacciava l’abbandono.

Quest’ultimo fu «uno degli aspetti più cupi della storia degli emigrati». Le più sfortunate, a riguardo, furono le donne giovani lasciate dal marito, senza più notizie, dopo la nascita del primo figlio. Ma gli effetti della massiccia emigrazione maschile si ripercossero anche tra le nubili; l’obbligo della dote per il matrimonio e l’assenza protratta del padre o di un fratello maggiore condannò molte ragazze allo zitellaggio.

Molte di queste vicende andarono a sostegno di coloro che ritenevano che l’emigrazione mettesse a rischio l’integrità morale delle popolazioni meridionali. L’assenza di capi famiglia maschi e di figli adulti faceva venire meno il dovere tradizionale di questi a vigilare sull’onestà delle sorelle nubili. Fino al 1870, periodo in cui si invertì il rapporto tra emigrazione del Nord ed emigrazione del Sud, opinione comune era che i meridionali fossero irrimediabilmente attaccati alla loro terra e al proprio sistema di vita. Ma alla proclamazione dell’Unificazione già i dati parlavano chiaro: gli italiani cominciavano a lasciare il paese in numero consistente, non più e non solo alla ricerca della ricchezza ma anche e soprattutto per sopravvivenza. Le camere di commercio del Nord e del Sud chiedevano si bloccasse qualsiasi emigrazione: le campagne erano sempre più deserte e necessitava più manodopera. «La promessa di un viaggio per mare pagato e di un lavoro garantito all’arrivo erano incentivi sufficientemente forti a superare l’istintivo timore del lavoratore di lasciare il paese natale per una terra sconosciuta» .

La stampa di sinistra vide nell’emigrazione la conseguenza della rivoluzione sociale. La nuova entità politica dell’Italia come nazione evidenziava l’esistenza di due civiltà, quella del Nord e quella del Sud, tra loro diverse e pur racchiuse in un «unico corpo statale». La classe politica italiana adottò, a tal riguardo, la politica del laissez faire, considerando il fenomeno quasi alla stessa stregua di una valvola di sfogo per i disagi che il Sud del paese comportava al nuovo stato. Le sole preoccupazioni del parlamento erano, allora, gli interessi settentrionali contro un meridione che poneva resistenza alle nuove leggi e fatto di scansafatiche, incompetenti e criminali. Dal punto di vista dei contadini il nuovo regime aveva solo reso i vecchi e nuovi proprietari terrieri più avidi. Secondo ragguardevoli storici quali il siciliano Francesco Renda a scatenare l’esodo dal Sud fu la ferocia con cui il governo italiano reprimette il movimento popolare di cooperazione dei Fasci Siciliani. Come afferma Jerre Mangione, l’Unificazione italiana per i siciliani «iniziò con una rinascita della speranza contro la fame e finì con un esodo di massa». L’interruzione dei rapporti commerciali con la Francia nel 1887 e la conseguente depressione dell’economia siciliana rese i poveri sempre più radicali e pronti a ribellarsi in virtù delle loro aspirazioni. La rivolta dei fasci rese per la prima volta i lavoratori siciliani consapevoli della loro forza collettiva ma segnò anche l’inizio della loro rovina. Non furono capaci di affrontare efficacemente l’opposizione e la situazione sfuggì, presto, loro di mano. L’appello della piccola nobiltà, spaventata a che i fasci fossero aboliti e l’intervento dello stato prima moderato e poi radicale si risolvette nella dura repressione del movimento con lo stadio di assedio dell’isola cui seguirono arresti di massa e deportazioni nelle colonie penali .

In poche parole, la mancata promessa di Garibaldi di dare un avvenire migliore ai contadini siciliani, il disinteresse crescente del nuovo governo e la sconsiderata repressione dei fasci uniti ai disastri naturali (siccità, eruzioni vulcaniche e terremoti, epidemie di colera) lasciarono al popolo siciliano una sola speranza: l’America. Nello stesso periodo (1861-1880) in America, nello stato della Lousiana, cui io ho incentrato prevalentemente le mie ricerche, l’abolizione della schiavitù nel 1861 e quindi l’emancipazione dei negri aveva comportato l’abbandono di numerose piantagioni e soprattutto una forte carenza di manodopera lavorativa. I padroni delle piantagioni cercarono di rimediare importando manodopera dalla Cina e dalla Scandinavia ma le condizioni di clima dello stato americano privarono di successo questo primo tentativo. Un altro esperimento fu fatto importando lavoratori dalla Spagna e dal Portogallo ma presto i governi spagnolo e portoghese fermarono l’emigrazione dei loro sudditi denunciando le inaccettabili condizioni del clima, la mancanza di igiene e la miserevole retribuzione di 75 centesimi al giorno. Un altro tentativo fu così rivolto all’Italia.

Tutti i giornali italiani pubblicizzarono l’inaugurazione di compagnie navali tra New Orleans ed il sud della penisola che avrebbero permesso di raggiungere l’America con appena 40 dollari a persona. Al principio dell’ultimo decennio del secolo, dopo i fasci siciliani, più di tre navi ogni mese lasciavano le coste siciliane con destinazione New Orleans. Immagino che anche allora, sebbene in un clima di maggiore legalità e di controllo, sia accaduto ciò cui oggi assistiamo di fronte alle masse migratorie che si spostano dai paesi orientali verso il ricco occidente. Tra le une e le altre la sostanziale differenza sta nella distanza, in quanto attraversare terre ferme o mari chiusi come l’Adriatico è cosa ben diversa dell’affrontare l’Oceano.

Alcuni emigrati trovarono lavoro direttamente a new Orleans mentre un gran numero venne reclutato per lavorare nelle piantagioni da zucchero. Le condizioni di lavoro nelle piantagioni erano realmente misere, anche per gli stessi contadini siciliani scappati alla fame. Secondo quanto afferma Mangione, più dettagliatamente, si lavorava dall’alba al tramonto, guadagnando una miseria . Le condizioni di vita erano primitive e tuttavia i lavoratori, incoraggiati dai padroni, mandavano a chiamare mogli e figli. Presto i siciliani scoprirono che rompendo le tradizioni del vecchio mondo e portando nei campi le donne a lavorare fianco a fianco, avrebbero potuto muoversi oltre le barriere della vita di sussistenza .

Anche per gli emigranti di Alia, le cui vicende non si differenziarono molto da quelle degli altri meridionali e su cui comincerò a trattare nel prossimo capitolo, la meta preferita per la stragrande maggioranza fu la Lousiana. Essi la raggiungevano direttamente tramite le navi che facevano rotta Palermo - New Orleans ovvero con approdo a New York e proseguimento col treno sino a New Orleans o Baton Rouge.


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