Testimonianze delle comunità aliesi (1860-1932) XI^ parte

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 10/09/2005
<b>Testimonianze delle comunità aliesi (1860-1932)</b> XI^ parte

Testimonianze delle comunità aliesi (1860-1932) XI^ parte

Emigrazione verso gli Usa
Testimonianze delle comunità aliesi (1860-1932)



Tesi di laurea della dott.ssa Cristina Guccione.

XI^parte

CAPITOLO IV

PASSATO E PRESENTE ANCHE NELLE TESTIMONIANZE ORALI


1. – Storie personali di successo

La comunità aliese, nonostante fosse, qua e là, sparpagliata per l’intero territorio americano, con maggiori presenze negli Stati di New York, New Jersey e Lousiana, era in costante contatto con l’avv. Matteo Teresi, che a Rochester, presso la propria abitazione, aveva organizzato, con la collaborazione della moglie e di altri volontari, un vero e proprio ufficio per mantenere i rapporti con i suoi compaesani. Egli rispondeva puntualmente alle lettere, ne inviava a mo’ di circolari in circostanze particolari, interveniva alla richiesta di eventuali soccorsi e, quando gli era possibile, si recava di persona a visitare i compaesani in difficoltà.

Tale e tanta attività comportava una spesa che Teresi, come suo costume, affrontava con i risparmi e con gli introiti che otteneva dal suo lavoro di pubblicista, dai profitti delle sue azioni presso qualche testata giornalistica e dallo stipendio di qualche pubblico incarico di insegnamento. Il suo generoso altruismo fu anche corrisposto con qualche donazione, ma si trattò sempre di poco rispetto alle necessità che giornalmente gli si presentavano. Egli, benestante, che era approdato in America non per cercare un lavoro, ma per dare sfogo alla sua filantropia, morì povero. A guadagnarci, ovviamente, in senso morale, furono i primi emigrati aliesi, che, grazie all’ «avvocato», come essi lo chiamavano, riuscirono a prendere coraggio di fronte ai disagi della nuova terra e li affrontarono con maggiore fiducia in se stessi e nel futuro.

È sorprendente, infatti, apprendere dai documenti a nostra disposizione e dalle testimonianze orali, raccolte presso le nuove generazioni, come non pochi individui della comunità aliese, figli dei primi emigrati, riuscissero a distinguersi e ad affermarsi.

È il caso di George Battaglia – Gioacchino per i familiari e gli amici - grande amico di Matteo Teresi, che, nei primi anni del secolo XX, «fondò e guidò la prima azienda di produzione agricola nel Texas » . Egli, lasciando Alia, dove era nato il 19 marzo 1848, si era imbarcato a Palermo sulla nave SS Herman diretta a New Orleans il 26 novembre 1883. Dopo un breve periodo di permanenza a New Orleans, Battaglia si trasferì a San Antonio nel Texas, dove visse per 34 anni e morì l’8 maggio 1917.

All’inizio egli svolse i lavori più vari, ma, nell’ultimo ventennio della sua vita, concentrò le forze e l’impegno sull’agricoltura riuscendo a creare una grossa azienda agricola che ebbe molta fortuna per la sua struttura e per i suoi prodotti, tanto da essere ripetutamente premiata e additata come modello all’intera America. A darne notizia sono non soltanto l’ anziano pronipote, Bob Battaglia, residente al 6825 Garden Ridge Dr., San Antonio, Texas 78266, ma anche un giornale locale, che, il giorno successivo alla morte dell’imprenditore agricolo, così scriveva: «George Battaglia, uno degli italiani più anziani di questa città, è morto nella sua residenza, 611 River Avenue, alle ore 6,20 di ieri mattina. Con la sua morte la colonia italiana di San Antonio ha perso uno dei più illustri e notevoli pionieri » .

Il giornale, subito dopo, proseguiva: «George Battaglia venne in questa città 34 anni fa; fondò e guidò la prima azienda di produzione agricola. Dedicò l’intera vita ai suoi affari e mai trascurò il dovere di cittadino della sua patria adottiva e sempre prese parte nella lotta politica di questa città. Molti lo ricordano per la sua inesauribile attività a favore e nell’interesse di San Antonio». Sottolineando le virtù di Battaglia, quali la laboriosità, l’onestà in famiglia e in società, il senso dell’amicizia, - valori tenuti, tuttora, in gran conto dalla società statunitense - il quotidiano ricordava, fra l’altro, che egli «nel 1890 fondò l’attuale società di Cristoforo Colombo, principale organizzazione italiana di questa città e ne fu presidente per molti anni. La società Cristoforo Colombo è riconosciuta come la più importante ed energica associazione dello Stato. Al Sig. Battaglia venne riconosciuto il merito d’avere fatto insediare molti emigrati italiani» .

Il fatto che George Battaglia appartenga alla schiera dei pionieri che tentarono da Alia l’emigrazione verso gli Stati Uniti d’America è confermata in altra occasione dal nipote Bob, il quale, fra l’altro, aggiunge qualche particolare. Questi, scrivendo il 6 luglio 1996 all’attuale parroco del Santuario Santa Maria delle Grazie per ringraziarlo che il giornale di quella comunità ecclesiale si era occupato dell’eccezionale figura dello zio, informa che «Gioacchino Battaglia and his brother, Arcangelo, came to the U.S. together. Arcangelo was my grandfather. They arrived in San Antonio in 1887, after living in Louisiana for few years» . La novità fornitaci da Bob è che George (Gioacchino per il nipote) non emigrò da solo, ma era in compagnia del fratello Arcangelo, il quale, ovviamente, va aggiunto al parco elenco dei primi e pochi coraggiosi che, dopo l’unificazione d’Italia, abbandonarono le montagne di Alia per avventurarsi sulle acque dell’Oceano verso una terra sconosciuta, tanto misteriosa, quanto allettante.

Altra figura emblematica tra gli emigrati aliesi è Joseph Bellina. Ha in comune con George Battaglia l’amicizia con Matteo Teresi. E, molto probabilmente, fu con l’avvocato in più stretta confidenza anche perché era suo coetaneo e le famiglie ad Alia abitavano vicino e si frequentavano. Un fratello di Joseph, Ciro, che per alcuni anni era stato pure emigrato negli Stati Uniti e poi era rientrato in patria, era uno dei pochi ad Alia che si teneva in corrispondenza epistolare con Matteo Teresi, al quale spesso raccomandava i giovani che partivano dal paese per l’America.

Ebbene Joseph Bellina riuscì presto, con il suo lavoro e con i suoi sacrifici, a darsi una florida posizione economica diventando proprietario di terre e di un grosso ristorante. La sua storia ha del romanzesco e, anche a sommi capi, è utile raccontarla, perché, sia dal punto di vista sociologico, sia dal punto di vista economico, ci dà l’idea di ciò che significò fare fortuna nella lontana America. È importante premettere che Joseph Bellina, alcuni anni prima della morte, all’età di 83 anni, volle lasciare per iscritto il racconto delle sue peripezie e, in genere, dell’esperienza della sua vita. L’interessante inedito si conserva presso l’archivio personale di Mr. Vincent Dispenza, Presidente dell’Associazione A.L.I.A. , sulla cui attuale interessante attività per e tra gli emigrati aliesi, anche per il recupero della memoria storica delle vicende dei pionieri tratteremo in seguito.

Joseph Bellina era emigrato in America nel 1905, due anni prima dell’avvocato Matteo Teresi. Aveva appena 12 anni ed era in compagnia di alcuni familiari. Durante la lunga traversata, grazie al carattere estroverso, fu agganciato dal gestore del ristorante di bordo e lavorò come cameriere sulla nave riuscendo a guadagnare, tra mance e stipendio, una somma in denaro doppia rispetto al prezzo del biglietto pagato per raggiungere, via mare, gli Stati Uniti.

Dopo più di un mese di navigazione sbarcò a New York e da qui proseguì per New Orleans, laddove arrivò nel periodo in cui imperversava la famosa e letale «febbre gialla» che già aveva provocato centinaia di vittime. Sopravvisse all’epidemia, ma dovette sottoporsi a una terapia eccezionale, ossia dovette trascorrere, per circa un mese, alcune ore della giornata in una stanza dove bruciava dello zolfo di cui egli era costretto a respirare, a pieni polmoni, le esalazioni.

All’età di 16 anni, sempre per la sua intraprendenza, Joseph lavorò in una piantagione di zucchero a New Orleans nei pressi di Carrolton Street in Pier Bend, ma, siccome era troppo giovane, fu assegnato alla distribuzione dell’acqua agli operai durante le ore lavorative. La sua «carriera», in ogni modo, non si fermò qui.

Egli, malgrado non sapesse ancora né leggere, né scrivere l’inglese, riuscì presto ad accattivarsi la simpatia e la fiducia del proprietario e fu presto promosso capo reparto della piantagione. In questo nuovo ruolo lavorò sodo, fece molti soldi e aspirò a migliorare le sue condizioni. E fu per questo che decise di trasferirsi nella parte ovest di New Orleans, in una località chiamata Marrero, dove, con un trattamento economico di gran lunga superiore al precedente, trovò un impiego presso un’impresa di legname, la «Collatex Mill».

Il suo spirito d’intraprendenza non cooosceva limiti e ancora una volta lo spinse ad andare avanti. Intuì che avrebbe potuto contemporaneamente guadagnare altri dollari aprendo una mensa per gli impiegati della stessa impresa. Detto e fatto. Anzi, più che una mensa interna, venne fuori un ristorante aperto al pubblico. Il successo non si fece attendere, anche perché, grazie ai suoi piatti tipicamente siciliani, fu di richiamo agli italo-americani e a quanti - e negli Stati Uniti sono parecchi - apprezzano in genere la cucina italiana.

Di fronte a tanta fortuna ritenne che non fosse giusto godersela da solo. E decise di prendere moglie scegliendo, per amore, una giovane, Rachal Palmisano, nata da genitori italiani, ma in Francia ad Alsace Lorraine. Dall’unione nacquero Filippo e Filomena, che, appena ultimate le scuole superiori a New Orleans, ritennero opportuno affiancare il padre nell’amministrazione dei beni che, nel frattempo, si erano accresciuti grazie ai proventi del ristorante che consentirono la costruzione di una serie di appartamenti e l’apertura di un rifornimento di benzina «Texaco», a Marrero.

La storia dell’emigrato Joseph Bellina, baciato e ribaciato dalla fortuna, potrebbe finire qui. Ma, anche se straordinaria, sarebbe uguale a quella di altri italo-americani dell’epoca che, a costo di grossi sacrifici, capovolsero la loro sorte. Invece quella storia non finisce affatto qui, perché, oggi, continua e ha come protagonista un nipote diretto, avente il suo stesso nome, figlio del suo primogenito, Filippo, il quale, a sua volta, aveva amministrato e, successivamente, ereditato il vasto patrimonio del padre. Ebbene Joseph Bellina jr., discendente da quel ragazzino dodicenne che varcò l’Oceano facendo il cameriere a bordo, è oggi, all’età di 58 anni, uno dei più noti scienziati del mondo impegnati nell’applicazione del laser in medicina. In campo medico gli è addirittura riconosciuto il merito di essere stato il primo nel 1974 a sperimentare l’uso del laser sul corpo umano.

Nell’estate del 1995 l’Health Repoter del «Medical News» di New Orleans, Leslie Hoffman, scriveva: «In 1974 Dr. Bellina developed the CO2 surgical laser to treat endometriosis, cervical cancer and other female discases. His research and high record of patient success led to recognition by The National Institute of Health and 10 national and international awards» .

Gli esperimenti del dott. Joseph Bellina jr. hanno ripetutamente, e per vari motivi, attratto l’attenzione della NASA. Tra le occasioni di maggiore prestigio la sua attiva partecipazione al famoso progetto JULIE. Alcune apparecchiature, da lui predisposte in base al suo studio e alla sua competenza, volarono a bordo della Columbia Space Shuttle nel gennaio 1986. Attualmente lo scienziato dirige, in Louisiana, «The Omega Institute of Health» di sua proprietà, in cui lavorano a tempo pieno 25 medici, 13 dei quali specialisti in varie branche. In suo onore il proprietario del famoso ristorante “Tony Moran’s”, 240 Bourbon Street di New Orleans, ha battezzato un piatto “Pasta Bellina” con la seguente nota : «A true Roman past dish mixed with backfin crab, pink salamon and caviar, garnished in the colors of the Italian flag. A favorite of my dear friend Dr. Joe Bellina» .

Sarebbero ancora tante le storie sulla fortuna dei primi emigrati aliesi negli Stati Uniti d’America: come quella di Salvatore Biondo che partì da Alia nei primi del ‘900 come garzone di falegnameria e a Baton Rouge si scoprì scultore del legno e, aprendo una bottega d’arte, si affermò in campo artistico e diventò famoso in Louisiana e fuori; o come quella di Giulio Cardella che, dopo avere lavorato per qualche decennio presso il Municipio di Phoenix, in Arizona, decise assieme ai figli di mettere su, nello stesso centro, un caseificio che ora ha dimensioni e attività di tipo industriale e distribuisce un pregiato prodotto, l’«Alia Cheese», in molti mercati americani, tanto da commuovere, qua e là, gli emigrati aliesi, - come mi è stato riferito da un anziano di loro - quando incontrano per le strade gli autocarri della distribuzione con la scritta, a grossi caratteri pubblicitari, riportante il nome del paese d’origine; o come quella dei «Todaro Brothers» che, nipoti di uno dei pionieri dell’emigrazione, Mr. Calogero Todaro, sono proprietari, a La Fayette e a New Orleans (422 Rue Chartres), di uno dei più grossi e più noti magazzini di vini provenienti da tutte le parti del mondo e, in particolare, dall’Italia e dalla Sicilia, tanto da fornire una lunga catena di bar e di ristoranti.

Tra queste e altre storie, che gli emigrati aliesi, pure gli sfortunati, sono soliti raccontare con orgoglio, facendosene quasi un merito personale come se tutti indistintamente ne fossero stati protagonisti, merita una speciale sottolineatura - anche perché riguarda una donna - quella di Veronica Di Carlo. Quando ancora ad Alia, paese natìo dei genitori, non era costume che le donne studiassero e le più istruite tra costoro potevano soltanto contare sulla «sesta elementare» (una classe in più rispetto all’attuale licenza elementare), essa, Veronica Di Carlo, era diventata giudice federale degli Stati Uniti d’America e, per via dei grossi processi di cui si occupava, era al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica americana e della stampa interna ed estera. Fu la prima donna italiana a entrare nella magistratura statunitense.

Il padre di Veronica, Vincenzo Di Carlo, appartenendo a una famiglia numerosa di contadini, aveva lasciato Alia, in giovanissima età, intorno al 1910. Aveva voluto rompere il forzato corso del suo destino che inevitabilmente avrebbe trascinato se e la sua futura famiglia a vivere alla giornata col magro raccolto dei campi. In America egli, pur non avendo potuto frequentare la scuola, si diede da fare in mille attività e, negli ultimi anni della sua esistenza, riuscì a farsi assumere a tempo pieno in un supermercato di generi alimentari di New Orleans, dove, dopo lunghi anni di lavoro, fu colto da un mortale infarto mentre sistemava dei prodotti. Chi lo conobbe testimonia che la sua era stata una vita di grossi sacrifici, ma, in compenso, era riuscito a dare alla figlia, per quale aveva scelto le migliori scuole della Louisiana, un avvenire inimmaginabile se fosse rimasto ad Alia. L’altro figlio, Gaetano, si laureò in ingegneria. E presto il successo giunse anche per lui .


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