A l’ammucciareddi L'espressione, tradotta nel linguaggio dialettale ancora in uso, soprattutto nei paesi di provinci">

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 10/10/2005
<b>A l’ammucciareddi</b>

A l’ammucciareddi

    Oggi spesso si sente dire ai bambini più piccoli -anche la sottoscritta lo faceva a suo tempo - "giochiamo a nascondino?" L'espressione, tradotta nel linguaggio dialettale ancora in uso, soprattutto nei paesi di provincia, diventa: " jucamu a l' ammucciareddi?"
    Credo che questa rappresenti per ogni fanciullo, a prescindere dai tempi e dai luoghi, la prima " tappa", il primo incontro con il gioco e il "gruppo" sia per la sua semplicità di attuazione, in quanto non occorrono strumenti o attrezzi di contorno, sia perchè esprime e manifesta, anche se in piccolo, il senso della competitività e della concorrenza che già da piccoli si prova nei confronti del prossimo, soprattutto quando si tratta di un coetaneo.
    Insomma, tutti almeno una volta abbiamo giocato a "nasconderci, " provando un certo piacere nel " non farci" scoprire dagli altri, come a voler celare il nostro piccolo angolo di ritrovo, quell' angolo che in quel momento era il " nostro" rifugio e di nessun altro. Nella memoria collettiva, quindi, è difficile stabilire o trovare con esattezza il tempo d'origine, ma tutti lo ricordano come un gioco " antichissimo" e senza età, caratteristica questa, comune a tutti quei passatempi cosiddetti " poveri" conosciuti dagli uomini.
    Tuttavia, per ragioni di collocamento temporale, possiamo certamente dire che era già molto diffuso ad Alia sin dagli anni trenta. "L'ammucciareddi" era, naturalmente, un gioco di gruppo e si faceva con un minimo di tre partecipanti:
    Momento iniziale e " democratico" era una "conta" dalla quale risultava a sorte chi doveva essere "u 'sutta". " U 'sutta", secondo il linguaggio figurato ma molto incisivo, era colui che doveva " ritrovare" gli altri, cioè quelli " n 'capu". Pertanto, appoggiando la fronte al muro e coprendosi gli occhi con le mani, cominciava a contare il tempo necessario per permettere agli altri giocatori di nascondersi.
    Luogo di tali rifugi non potevano che essere le strade, i vicoli, le "cantunere" più piccole e introvabili delle strade aliesi e proprio la scelta del nascondiglio, a mio giudizio, riempiva di un senso di avventura particolare. Finita la conta, il gioco non poteva procedere senza la domanda fatidica "du 'sutta": " a'ura è?" Quello era il segno del via e la ricerca cominciava.
    " Ti vitti, sutta sì": in genere era questa l'espressione comune del gioco che stava ad indicare il primo avvistamento, il primo ritrovamento. E nel momento stesso in cui il giocatore nascosto era scoperto per primo, doveva automaticamente fare la conta al successivo giro: era quindi, "u 'sutta" di turno.
    Se però quest'ultimo arrivava a battere la mano al muro prima del suo avvistatore, "liberava" tutti gli altri compagni e ciascuno manteneva i ruoli iniziali: tutti potevano tornare a nascondersi e "u 'sutta" rimaneva al muro a contare.
    Si continuava così, senza particolari vincite o premi, solo per il piacere di nascondersi e ritrovarsi a vicenda e, ogni tanto, ricordano alcuni "vecchi giocatori" si incitava alla ricerca intercalando un allegro motivetto: " iamu, iamu, iamu, quattru e cincu ca l'asciamu".
    Nonostante col tempo inevitabilmente si perdano certi usi e costumi dialettali, resta il fatto che ancora oggi molti ragazzi, e non solo loro, sentano spesso il bisogno di attuare quei giochi più semplici nei quali possono decidere con il proprio cervello e muoversi davvero con il loro corpo.
    E non è un caso che ciò si avverta maggiormente nell' era di internet e della realtà virtuale.
    di Georgia Bova
    pubblicato in " La VOCE della Mamma "di Alia, nr.1/96, pag.3



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