La gita a Termini con lo zio Attilio - III^ parte -

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 21/10/2005
<b>La gita a Termini con lo zio Attilio</b>  -  III^  parte  -

La gita a Termini con lo zio Attilio - III^ parte -


    tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30-’40 . Si ringraziano, per la gentile concessione, gli Eredi dell'Autore e l’Amministrazione comunale di Alia che nel 1997 ha curato la pubblicazione del libro.


    " Gli aliesi attenderanno ancora molti anni, prima di conoscere come, quando e perché nacque la comunità di Lalia, e come fu che quel feudo nel 1600 prese titolo di "Comune", divenendo l'istituzione di una entità unitaria del popolo. Merito della civica amministrazione e grazie all'impegno culturale di Eugenio Guccione, storico aliese.
    La risposta alla domanda che io bimbo avevo rivolto a zio Attilio, ora la conoscono tutti al mio paese; o almeno così io spero! Ora sappiamo tutti che quelle case nacquero nel tempo in cui i feudatari di Lalia vollero raccogliere gli uomini, prima dispersi tra un feudo e l'altro, per radunarli attorno alloro castello. Certamente per meglio assecondare i loro interessi, ma anche per dare agli uomini strutture, organizzazioni capaci di favorirli nella crescita della loro civiltà. Ed è attorno al castello che cominciarono a crescere, timidamente ma costantemente, ed anche non senza vicissitudini, le case di quello che poi sarà il popolo di Lalia.
    A poco a poco quella cima alta del monte, prima simboleggiata soltanto dal castello feudale, si coprì di case, si popolò di uomini, di donne e di bambini, e "lu rabatieddu" divenne centro di una comunità. Poi la popolazione venne sempre più crescendo e sorsero nuove case che andarono a riempire altro spazio del monte. Naturalmente case e strade venivano costruite in conformità alla struttura, alla composizione del terreno, di quel monte in vero assai sgraziato. Ecco, ora io dal "postale" vedevo il mio paese come sfumato, veleggiare nell' aria, proiettato più verso il cielo che la terra. Scorgevo più distintamente la Chiesa Madre, fatta costruire nel lontano tempo, accanto al castello feudale.
    Ma come apparirà Lalia, vista dal monte di Raciura, mi chiedevo curioso, dando spazio alla mia fantasia. A giudicare dal volto arcigno di quel monte, dal suo star guardingo, ringhioso si potrebbe pensare che Lalia dovesse apparire a Raciura come una bestia pronta a lanciarglisi contro. Quel petto gonfio "u cuozzu" del monte di Lalia, quello scivolare d'ali, l'una allargata verso il Calvario che va a chiudersi a chioccia sulla zona di S. Anna e fino allo stradale per Montemaggiore, quasi a sfiorare le pendici di Raciura; l'altra ala che scende verso S. Rosalia e che si raccoglie sul màrcato, può far pensare ad un rapace insonnolito, ma vigile, attento e pronto a beccare il suo rivale spoglio e disadorno.


    Fantasie di ragazzo, galoppanti immaginazioni che, appunto, solo i ragazzi sono capaci di costruire.
    Quali oscure immagini offre quel cozzo! Un ammasso di terra e di pietre, senza case, brullo, dove cresce l'erba bianca e l'ortica; una pancia gonfia di sazietà che interrompe l'abitato del "lu rabatieddu" con la parte centrale del paese. Tra le case che dominano il cozzo e il resto del paese non c'è continuità. Solo ai piedi del cozzo riprendono poi le strade e le case. Ma, per esempio, sotto l'abbeveratoio di cui ho già parlato, c'è un vuoto, una specie di ombelico. Sì, sembra proprio l'ombelico del rapace sovrastante, quel vuoto contorto, che gli abitanti hanno poi cercato di rendere più presentabile, riempiendolo con la costruzione di una scalinata ai cui lati hanno piantato degli alberi per rendere più accettabile la faticosa salita alla gente; da qui il nome di "parco" dato a quell'ombelico sgraziato. Ai lati del parco, due file di case scivolano, anzi sembrano precipitare l'una sull'altra, agganciate a quella quasi perpendicolare scalinata che va a congiungersi con la strada dritta.

    Non so se sono riuscito a dare una figurazione vicina almeno alla realtà del mio paese, né sono qui a decantare le sue bellezze. Ho solo voluto dire che il mio è un paese inventato così... senza molte pretese, costruito a casaccio, nato e cresciuto un po' a sghimbescio, appiccicaticcio, fatto a pezzi e bocconi, senza alcuna immaginazione, alcuna fantasia. Le case costruite per viverci i contadini, per avere essi un tetto sopra la testa che li proteggesse dalla pioggia, dalla neve, che li riparasse dal vento nei mesi invernali e dal sole cocente nei mesi caldi. La preoccupazione dei feudatari era stata quella di chiamare più gente possibile, per avere una popolazione che consentisse di costruire un Comune. Bisognava, insomma, assicurare a ogni cittadino che si arruolava nel feudo, una casa, non importa come e dove... Un paese costruito, dunque, come la montagna del feudo, a sua immagine e somiglianza, e come le obbiettive circostanze del tempo lo consentivano.

    Immagino lo squallore che si presentò ai primi uomini che accorsero ai richiami lanciati dai feudatari di Lalia. Essi trovarono certamente una montagna mostruosa la cui struttura geo-topografica era attribuibile a un capriccio spregevole della natura. Ecco, immaginiamo che i primi abitanti guardassero quella montagna dal "màrcato" o, che so io, dal fondo di quello che è oggi il quartiere di S. Anna, o da quel vuoto-ombelico del cozzo - oggi parco – quale impressione desolante devono avere ricevuto. Certo, sopra quella montagna sgraziata, arcigna, deformata, c'era austero il castello dei feudatari; ma forse, proprio per questo, quel monte deve essere apparso più spettrale.
    Si legge nella storia di Lalia che non fu facile a donna Cifuentes ottenere consensi fra la gente, e che il feudo si popolò molto lentamente, e pare anche che, a un certo punto, per raccogliere più gente possibile, per popolare il nascente Comune, fosse stato necessario chiudere gli occhi, facendo finta di non vedere che fra il popolo reclutato, fra quella gente eterogenea, varia c'era anche qualcuno poco raccomandabile e dai lunghi precedenti penali.Non si poteva fare certo complimenti, e i feudatari erano assai interessati a dare la stura a quel Comune che era la garanzia per tanti loro interessi. Del resto le difficoltà che incontrò Lalia non furono diverse da quelle di altri Comuni della Sicilia, soprattutto nella parte interna dell'Isola, dove era tutta gente raccogliticcia. Forse fu più agevole popolare e costituire i Comuni nelle zone costiere dove ancora oggi si osservano testimonianze eloquenti di una maggiore civiltà che già sin da allora distingueva quelle popolazioni da quelle dell'interno dell'Isola. Ma anche quella montagna di Lalia non poteva pretendere di più e meglio!

    Fu certamente un passo avanti la nascita del Comune perché non solo si qualificò il feudo, ma rappresentò un salto di qualità dell'uomo nella dimensione della sua civilizzazione. La civiltà contadina compì un nuovo passo in avanti, si arricchì di nuove conquiste, l'uomo trovò la sua collocazione sociale, le sue regole di vita, di comportamento nel novero della comunità. Perché l'uomo nasce solo, disperso, ma egli per esistere e resistere ha bisogno di sentire pulsare la sua vita insieme a tutti i nati soli, a tutti i dispersi.Così nacque il popolo di Lalia, e Lalia non fu più solo un feudo e un castello, ma divenne una comunità, un' entità istituzionale con le sue leggi, le sue regole morali, le sue ragioni sociali.
    Forse quella prima conquista nella scala del progresso sociale avrebbe dovuto registrare evoluzioni più accelerate, come ce ne furono nel resto d'Italia. Certamente ci furono arresti nel cammino Intoppi che impedirono una evoluzione più marcata. Questo può anzi deve indurre l'uomo a cercarne le cause. Ma non si possono ignorare o annullare i valori conquistati anche in quel tempo. Per cui dico che ovunque l'uomo sia stato capace di costruire una casa di vivere ivi il suo tempo, dalla culla alla morte, sforzandosi di dar impegno di creatività alla sua esistenza, là dove egli ha radunato le sue energie per accettare le gioie come i dolori che la vita gli disponne, accettandoli come essi siano, quel luogo è bello!
    Quelle case, quel paese, quelle strade dove gli uomini vivono per la loro felicità o per quanto altro offra la vita, sono belli per chi vi è nato, vi ha vissuto, ha coltivato i suoi sogni, ha aperto 1'anima alla speranza; per chi ha visto nascere le sue creature e ha visto morire e ha seppellito i suoi cari. Quel paese è parte degli uomini che lo vivono: quindi lo amano. Io credo che quando lo zio Attilio mi sollecitò ad osservare il paese aggrappato alla Chiesa Madre, egli volesse dirmi che noi ci stavamo allontanando da qualcosa che era nostro e a cui appartenevamo, era parte di noi stessi, della nostra vita. E io vidi dalla mia lontananza le campane della Matrice dondolarsi nell'aria come per un magico movimento, e sapevo, anche se non udivo il loro suono, sapevo qual era il segno che annunciava alla mia gente: mi riconoscevo in quel dondolio delle campane.
    La chiesa, le campane, ecco un'altra testimonianza della storia di tante generazioni, di uomini e di donne che nei secoli avevano vissuto il loro tempo secondo lo scandire del suono di quelle campane, messaggere del divenire della vita, momento in cui la gente sapeva riconoscersi in quei suoni, segno dello scorrimento della vita: le campane come regola della vita. "La religione disciplinava" - scrive lo storico aliese - "gran parte della vita quotidiana.

    E tutti si uniformavano alla suddivisione della giornata prescritta in maniera canonica, ovvero esplicitamente regolata, denominata con le parole iniziali delle preghiere più comuni. Era il suono delle campane, con tocchi diversi e variamente intervallati, a segnare le ore di maggiore interesse, ai fini del lavoro o di eventuali impegni civili". Ebbene, queste regole di vita della comunità non si riscontrano solamente nella storia del tempo che fu, ma hanno avuto li incidenza forte anche nel costume di vita dei tempi successivi, almeno sino ai giorni in cui io portavo i calzoni corti; e spero anche ora, in questi nostri tempi "moderni" , visto che gli uomini non hanno saputo, ahimè, inventare regole migliori per reggere la loro vita.
    Sempre, da che gli uomini prima dispersi avvertirono il bisogno di radunarsi per costruire la loro civiltà, i suoni hanno rappresentato per essi la loro maniera di comunicare, di riconoscersi, di essere insieme nei diversi momenti della loro vita: prima il suono del corno, poi quello delle campane di una chiesa, hanno sempre dato il segno della solidarietà umana, dell'accorrere l'uno verso l'altro per identificarsi nel medesimo impegno di civiltà.
    Ecco perché posso affermare che il mio paese, costruito su quella montagna, cresciuto pur nel disordine della storia di questa meravigliosa Isola, ma forgiato da un popolo di gente che sa riconoscersi nel seno grandioso della sua umanità, questo mio paese è bello!


    Lalia è un paese nato dal ventre della civiltà contadina. Guai a coloro che voltassero le spalle a questa civiltà: ne va della loro esistenza, del loro essere, del loro divenire. Senza il sostegno di questa originale civiltà, impressionata in tutto ciò che è stato ed è questo paese, ma vorrei dire quest'Isola di sole, gli aliesi, i siciliani tutti perderebbero la loro identità, condannandosi ad essere nani, ad essere Giuda al cospetto del passato e dell' avvenire.

    Improvvisamente la mia attenzione sul paese fu interrotta dal suono frenetico della tromba dell' autobus, e contemporaneamente i nostri corpi furono sballottati da una brusca frenata che bloccò violentemente l'autobus sulla strada, sollevando una nuvola di polvere. Ne fummo allarmati e tutti allungammo lo sguardo curioso sulla strada per scoprire che cosa avesse dato origine a quell'inattesa sbandata. Vedemmo allora un mulo sul quale stava un uomo a cavallo, che essendo stato raggiunto dal rumore dell' autobus, si era imbizzarrito, si era "appagnato" ; e ora tirava calci che pareva impazzito; mentre il povero contadino veniva sballottato come fosse un pupo di pezza.
    Il pover'uomo non sapeva più cosa fare: con una mano teneva tirata la redine, nel tentativo di frenare le bizze del mulo e arrestarne la furia selvaggia, con l'altra tentava di tenersi aggrappato alla barda, ma nel con tempo tentava con la stessa mano d evitare che il cappotto gli volasse via dalle spalle. E così, infatti, andò a finire: il "cappotto" volò via e con esso anche la "cuòppuola", per fortuna il cappotto non era di quelli di lusso che portavano i danarosi, pavoneggiandosi per le strade, ma un povero cappotto consumato dal tempo, un cappotto proprio da contadino.
    Sto parlando del "cappotto" siciliano, non come quello che si usa oggi e che usavano indossare i signori anche in quei tempi nelle città, ma il "cappotto-mantello" che si usava in quel tempo nei paesi siciliani, e di cui oggi non si trova traccia neppure nei musei. L'ampio mantello, dotato anche di un cappuccio, era di panno blu, foderato di altro panno più leggero di colore verde; all'altezza del collo c'era una nappa che era ornamentale e, ad un tempo, serviva come aggancio, all'occorrenza.
    Gli uomini lo portavano sulle spalle, un po' spavaldamente, alla maffiosa - inteso in senso figurato, con eleganza, insomma - . E quando faceva molto freddo, si ammantavano il corpo, coprendosi anche la testa col cappuccio. Quello che in genere portavano i contadini era di modesta stoffa e fattura.
    Come volle il cielo, il mulo, a poco a poco, cominciò a perdere energia e finì per calmarsi e tornare obbediente sotto il dominio del suo padrone che, poverino, col volto spaventato, ora sfogava la sua paura punendo la bestia a suon di colpi di redine. Non c'era da scherzare: se quel mulo l'avesse scaraventato a terra sarebbero stati guai per il contadino. Morire per avere ricevuto un calcio dal mulo perché disarcionato violentemente non era un caso raro, allora.
    E meno male che l'autista era stato abbastanza sollecito a frenare l'autobus ché altrimenti avrebbe potuto investire il mulo e il contadino. Ma la cosa non turbò mastro Totò che, anzi, restò impassibile, con le braccia appoggiate sul volano, a guardare le bizzarrie del mulo e il saltellare scomposto del malcapitato contadino che pareva essere diventato il diavoletto di Cartesio.
    Il postale riprese la sua corsa verso  Roccapalumba ' Title='Comune di  Roccapalumba '> Roccapalumba  , e noi ci rimettemmo a sedere, mentre l'autista cercava di dare una accelerata all' andatura dell' autobus per riprendere il tempo perduto e non fare tardi al treno. Io tornai a guardare i campi seminati a grano e a fave che già mostravano la loro vitalità e la loro crescita fra i solchi tracciati dall'uomo.
    Altri campi proponevano invece ampi tappeti di sulla i cui fiori rosso-turchese dondolavano con un movimento simmetrico, come una danza al suono di quel venticello portato dall'aria mattutina. Il sole con la sua faccia ridente si faceva sempre più spazio nel cielo e illuminava la terra, mettendo a fuoco i suoi colori e i suoi frutti. I campi seminati a sulla mi avevano sempre affascinato: era
    uno spettacolo fantasmagorico che mi faceva sognare; ed ora il fascino era maggiore, più elettrizzante perché vedevo la sulla, i suoi colori, la sua danza al vento da un osservatorio inconsueto per me.

    Quell'armonia si accompagnava alla velocità dell'autobus, offrendomi una sequenza di visioni ancor più esaltanti. Lo spettacolo della sulla si accompagnava ad un'altra visione, i mandorli in fiore. La purezza di quei petali bianchi candidi, attaccati delicatamente ai rami che li esponevano, ancora bagnati di rugiada, all' aria pura del mattino e all' azzurro del cielo illuminato dal sole, inteneriva l'animo e il cuore.
    Una visione paradisiaca che la maestà della natura offriva alla contemplazione dell'uomo. Oh santa natura, non soltanto nei tuoi principi, nelle tue leggi, ma nella tua pratica! Intanto non mi ero accorto che l'autobus aveva rallentato la sua corsa: eravamo arrivati alla stazione di  Roccapalumba ' Title='Comune di  Roccapalumba '> Roccapalumba  . Ero un po' intimidito, incerto e, perciò, non mi decidevo ancora ad alzarmi dal sedile, finché lo zio non mi sollecitò: -"Andiamo chè siamo arrivati" - mi disse -.
    Scendendo dall' autobus, mi affrettai ad afferrare una mano dello zio, come mi aveva raccomandato la Mamma. Entrammo in un locale ampio, ma brutto, spento e grigio; quasi deserto, se non fosse stato per la presenza dei passeggeri giunti da Lalia.
    Lo zio acquistò i biglietti da un uomo che stava dietro a uno sportello di una stanza buia e disadorna; quindi ci avviammo dall'altra parte dell' edificio che mi apparve meno grigio, forse a cagione del sole che lo illuminava, ma squadrato e brutto. Ci incamminammo verso un marciapiede, oltre il quale c'erano lucidi e lineari i binari; attorno tutta campagna ingobbita, terra seminata a grano e a fave: non un contadino in quei campi, soli, deserti e deprimenti.

    Quel che destò la mia attenzione e la mia curiosità, intanto, fu il suono di un campanello che in modo frenetico, frettoloso, allertava tutti, riempiendo il silenzio tutt' attorno. Quel campanello annunciava - come seppi dopo -l'arrivo del treno. Vidi, infatti, che tutti assunsero un atteggiamento di vigile attesa, allungando lo sguardo sulla linea ferrata, nel tentativo di scorgere il treno in arrivo; ma tenendosi ognuno a distanza di sicurezza sul marciapiede. Anche lo zio s'avanzò, ed io con lui, stringendomi la mano ancor più forte nella sua per cautela: - "Sta arrivando il treno" mi disse, e aggiunse: "te lo dico io quando dobbiamo salire" . Io ero alquanto emozionato, tutto tirato, nell' attesa degli avvenimenti. Guardavo anch'io lontano, lungo i binari che più in là si incurvavano dietro l'altura di un campo.
    Ad un tratto, proprio da quella curva spuntò una nube di fumo denso che lasciava una scia grigia nell' aria, e subito si affacciò, sotto quella nuvola di fumo, la sagoma del treno che nettamente si stagliava imponente lungo le parallele della linea ferrata. Avanzava sbuffando rumorosamente, ma con lentezza, come se non avesse fretta di giungere. Intanto a noi si accostò un uomo con in testa un berretto rosso dalla foggia militaresca che teneva nella mano destra una paletta. Salutò lo zio: -"Puntuale è 'sta matina, don Attilio" - disse, quasi compiacendosi della puntualità di quel treno. - "Meno male" - rispose lo zio.
    Il treno si fermò e noi con gli altri passeggeri, pochi in verità, salimmo nelle carrozze, quattro o cinque che componevano il convoglio, e dove trovammo già altri viaggiatori, provenienti dalle stazioni precedenti. Essi ci guardarono, vidi, con diffidenza, quasi con fastidio. Anzi, scorsi che i loro occhi si mossero velocemente prima verso di noi e subito verso l'alto della carrozza dove si trovavano i loro bagagli. Un' attenzione carica di sospetto, tipica proprio dei contadini che, usi come sono a vivere isolati, si fanno istintivamente diffidenti verso gli estranei; senza offesa, ma solo come spontanea difesa verso chi non si conosce.Io però andai subito ad affacciarmi al finestrino per attendere il momento in cui il treno avrebbe ripreso la sua corsa. Infatti, di lì a poco, l'uomo col berretto rosso alzò la paletta che aveva due facce, una rossa e l'altra verde, mostrò al macchinista quest'ultimo colore, e il treno con un lungo e lacerante fischio che mi giunse piuttosto lugubre, sfiatando e vomitando fumo da sotto e da sopra, si mosse lentamente, e man mano poi più velocemente ".


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