LA MIA CONQUISTA

Radici & Civiltà

LO BLUNDO CLAUDIA LO BLUNDO CLAUDIA Pubblicato il 17/11/2005
<b>LA MIA CONQUISTA</b>

LA MIA CONQUISTA

Sono nata in un paesino del centro della Sicilia, uno di quei paesi sonnolenti che sembrano sbucare dal nulla tra le distese di campagne ora bionde di grano, ora verdi per gli ulivi e d iimandorli. Al mio paese la calura del sole estivo impedisce alla gente di mettere il naso fuori dalla porta, ed il freddo invernale fa avvolgere grandi e piccoli in enormi scialli quei grandi tabarri dove i vecchi di una volta nascondevano lo scaldino che portavano ovunque andassero.


 

Nel mio paese le strade, strette, salgono come tanti raggi su verso la grande piazza dove si affaccia la Matrice, la chiesa più importante e più bella del paese.
 

Alla destra della Matrice c’era una volta, chissà se vi è ancora, un Istituto tenuto da suore; lì venivano ricoverati gli orfani poveri del mio e di altri paesi. Li vedevamo uscire, tristi, per andare dietro le processioni dei defunti ed in chiesa erano gli unici, tra noi bambini, a stare buoni e zitti mentre il prete, sull’altare, con le spalle rivolte a tutti noi, diceva cose strane in quella lingua incomprensibile e misteriosa, la lingua con la quale si poteva parlare a Dio!


 

Le suore dell’orfanotrofio "facevano scuola", ed alle ragazze insegnavano il ricamo. Non frequentai l’Orfanotrofio, né la scuola né per il ricamo.Mio padre, come si addice ad un siciliano che aveva nelle vene più sangue arabo che spagnolo o francese, era un tipo geloso, anche senza tenere segregata mia madre. Chiaramente non avrebbe potuto perché lei doveva badare alle mucche, mentre lui coltivava la campagna; del resto mia madre non stava mai da sola, perché nel grande cortile sul quale si aprivano le porte della nostra casa, al piano terra, si affacciavano le porte delle altre case. Così i mariti, al mattino, andavano in campagna e le mogli si occupavano dei figli perché non litigassero con i figli dei vicini e si occupavano, le mogli, delle galline che, uscite dalle stalle, entravano, quasi per dispetto, nelle case dei vicini che poi non intendevano restituirle; così iniziavano liti interminabili alle quali intervenivano tutte le donne del cortile pronte a dare ragione all’una o all’altracontendente.

 

No, mio padre non era geloso di mia madre, ma di noi figlie, sì! Per questo motivo i miei due fratelli frequentarono la scuola elementare, imparando a leggere e a scrivere ed invece io e mia sorella, no!

 

Quando lo pregavo di mandarmi a scuola, mio padre rispondeva con affetto e noncuranza: " Ma a che ti serve, figlia mia? Io non so leggere, nemmeno tua madre, eppure viviamo tranquilli! " ."Ma Carmine e Salvatore", controbattevo io, "li mandi a scuola! " ."Loro sono maschi, dovranno trovare un lavoro, non voglio che stentino la vita come ho fatto io; magari andranno in America" , aggiungeva tra il triste e l’augurante, "per questo loro devono saper leggere e scrivere, ma tu, sta allegra, figlia mia, quando sarai grande, ti trovo un bravo marito e farai la signora! " .

 

Crescendo, il desiderio di imparare a leggere e scrivere si affievolì, presa dai tanti problemi di ogni giorno: la guerra, la fame, la preoccupazione per i due fratelli al fronte. Poi… il primo sentimento di impotenza e di vergogna: i miei due fratelli scrivevano e noi eravamo costretti a chiedere all’uno ed all’altro, in paese, affinché ci leggessero le lettere e che scrivessero per noi le risposte.

 

Mia sorella non se ne faceva alcun cruccio. Io, al contrario, me ne rammaricavo e quando, terminata la guerra, i miei fratelli tornarono sani e salvi a casa, mi feci promettere che mi avrebbero insegnato a leggere e scrivere. Mio padre, adesso, non mi prendeva più in giro anche perché mio fratello Salvatore, il più piccolo, aveva deciso di tentare la fortuna in America e Carmine era riuscito a farsi assumere quale bidello presso una scuola, in città.

 

Poi mi sposai; mio marito mi condusse a Torino e lì nacquero i nostri cinque figli, cinque bei bambini da accudire, da fare crescere bene, una femminuccia e quattro maschi.

 

Certo i tempi erano cambiati. A mio marito non sarebbe mai venuto in mente di non far frequentare la scuola a nostra figlia, perché femmina, anche se tentò di dire che le sarebbe bastata la sola licenza elementare, considerando la scuola media un inutile ‘di più’. Mio marito era uno di quegli uomini convinti che il posto della donna è in casa, vicino alle pentole ed ai figli e non nelle fabbriche, al lavoro, dove tra l’altro si intromettevano nei discorsi degli uomini.

 

Abitavamo, insieme ad altre famiglie, in uno di quei caseggiati popolari col ballatoio esterno sul quale, noi donne, ci affacciavamo per parlare; c’erano altre donne della mia età o più vecchie o più giovani, che non sapevano leggere e ciascuna di noi raccontava la propria storia, compresi i motivi per cui non era andata a scuola. Quei discorsi sembravano olio che calmava la ferita del mio desiderio ormai relegato nella piega più profonda e più nascosta del mio cuore. Se intimamente soffrivo e mi vergognavo per quello che consideravo un mio difetto, esteriormente, tuttavia, avevo imparato a fare come le altre donne: indifferente, ero pronta a dare la colpa, più che alle persone, alle circostanze.

 

Quando, per la prima volta, accompagnai a scuola il mio bambino più grande, decisi con me stessa che accanto a lui, avrei finalmente imparato; ma la mia buona volontà svanì come bolla di sapone al sole perché, invariabilmente, accadeva qualcosa che mi impediva di sedermi al fianco di mio figlio, allieva vicino al maestro, e, purtroppo, in seguito, non mi si presentò più l’occasione per farlo!

 

Cercavo, però di utilizzare la memoria: così imparai a conoscere i cartelloni pubblicitari, imparai a memoria le ricette per dolci dettate alla radio e, col tempo, quando cambiammo casa e ci trasferimmo in un nuovo appartamento alla periferia di Torino, imparai ad evitare gli argomenti in cui si finiva a parlare di scuola, evitando inoltre tutte le occasioni in cui avrei dovuto leggere o scrivere qualcosa.

 

Avevo capito che alcune persone riescono a leggere solo se hanno gli occhiali da vista e così, se mi trovavo in difficoltà, dicevo che non ero in grado di leggere, o scrivere, perché, per un difetto alla vista, avevo bisogno degli occhiali che non riuscivo a trovare, finiti chissà dove, per colpa dei bambini.

 

A volte sfogliavo i libri dei miei figli, guardavo le figure e cercavo di immaginare mondi lontani, cose che ora, però, la televisione ci mostrava. Poi mio marito morì. I miei figli si erano sposati ed io rimasi sola, nella mia casa, per mia scelta, trascorrendo le giornate lavorando a maglia o cucendo vestitini per le mie nipotine.

 

Una sera mia figlia mi condusse a teatro ad assistere ad una recita scolastica dove sua figlia tredicenne impersonava la parte della protagonista: Anna Frank. Nonostante i miei anni –avevo superato di molto i cinquanta anni- non avevo mai assistito ad una recita "dal vivo" . Al termine della rappresentazione, nel complimentarci con gli allievi ed i loro insegnanti, eravamo tutti lacrimosi per la sorte di quella giovinetta che, grazie al suo scritto, col diario, aveva superato le barriere poste dagli uomini, riuscendo a sopravvivere, spiritualmente agli orrori della guerra ed alla sua stessa morte. In tal modo, dopo decenni, il suo diario non soltanto costituiva una preziosa testimonianza della sua vita in quel tragico periodo, ma aveva permesso ai suoi lettori di conoscere i suoi pensieri, la sua anima.

 

Questi erano i commenti degli alunni, dei genitori e ciò che mi spiegò mia figlia. Ma io avevo colto un altro aspetto che mi sembrò essenziale. Quella sventurata bambina, pur se chiusa, pur se isolata da mondo, aveva avuto tra le mani una grande possibilità che le aveva permesso sia di esprimere sé stessa, i propri dolori, sia di partecipare agli altri il proprio vissuto, i propri pensieri: lei sapeva leggere e scrivere! Quella notte non riuscii a dormire, colta da una strana ed indefinibile agitazione cui facevano eco tanti rimpianti e tanti rimproveri; continuavo a rammaricarmi perché –mi dicevo- non avevo saputo cogliere, durante tutta la vita, l’occasione adatta per imparare a leggere e scrivere. E intanto mi ripetevo: "Ma adesso cosa mi serve recriminare?" .

 

Durante quelle ore notturne mi sentii invasa da un’ansia che mi faceva immaginare quel che avrei potuto fare se avessi saputo leggere e scrivere. Mi venne in mente, tra l’altro, un episodio di tantissimi anni prima: mentre raccontavo ai miei piccoli figli come vivevo nel mio paese natale da bambina, il primo figlio mi aveva detto : " Mamma, quando racconti sembra di leggere una novella della mia antologia! "
 

. Ricordando quell’episodio mi venne in mente che, allora, a quelle parole, mi ero sentita arrossire di piacere.


 

Mi convinsi, in quella notte di ripensamenti, che forse con un po’ più di buona volontà, durante gli anni passati, avrei potuto imparare a leggere e scrivere. Invece mi ero impigrita utilizzando la storia degli occhiali che, ora capivo, nascondeva il timore e la vergogna che avrei eventualmente provato chiedendo aiuto a che avrebbe potuto insegnarmi, finendo con l’essere presa in giro per quel desiderio nonostante l’età adulta.

 

"Si può sempre cominciare" , decisi, " domani cercherò una maestrina ed imparerò! "Ed è stata, in seguito, una continua scoperta del mondo che mi circonda.

 

Da allora ho letto tanto, di bello e di brutto, di triste e di allegro. Ho letto e ho scritto, felice di essermi liberata di quella barriera che mi teneva legata all’ignoranza.Ho imparato a far uscire dal mio cuore sentimenti, sensazioni, pensieri, immagini; così come ho conosciuto le emozioni che lo scritto di un autore mi comunicava. I miei figli mi prendono amorosamente in giro, ma so che sono contenti ed orgogliosi per la mia conquista, ed io penso che il tentativo di mio padre che, forse, a modo suo, voleva proteggermi dalla "conoscenza" , sia stato, infine, inutile.

 

CLAUDIA LO BLUNDO


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