la scuola - I^ Parte -

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 27/11/2005
<b>la scuola</b> - I^ Parte -

la scuola - I^ Parte -

Il pastorello


tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30 -’40 . Si ringraziano, per la gentile concessione, gli Eredi e l’Amministrazione comunale di Alia che nel 1997 ha curato la pubblicazione del libro.

" La scuola per i bambini, istintivamente dovrebbe essere la seconda madre, la seconda e più importante fase della loro vita, quella che li proietta nel mondo sconosciuto, esposto alla loro scoperta. Ma in quegli anni miei non era una fase della vita che si apriva a tutti i bambini: molti di essi non andavano a scuola perché non incoraggiati dalle famiglie. Le quali, a loro volta, trovavano che la scuola cozzava contro i loro interessi economici: preferivano portare i loro figlioli a lavorare in campagna o impiegarli presso i padroni a guardare le pecore o le vacche. C'era anche allora l'obbligo scolastico sino alla quinta elementare, ma era un obbligo fittizio, che nessuno rispettava e nessuna autorità faceva rispettare. Prevaleva, insomma l'ignoranza; non soltanto dei genitori, ma anche della società, chiusa, indifferente che riteneva inutile, per esempio, il sapere per il contadino. Ignoranza, unitamente all'interesse economico, generavano uno stato di abbandono che faceva escludere la scuola dai bisogni della società.

Fra quei bambini costretti a rinunciare alla scuola, molti forse avrebbero voluto imparare, avrebbero preferito la scuola piuttosto che i lavori nei campi o esporsi alle intemperie dietro le pecore o le vacche.

Era, per esempio, diffusa la convinzione che le bimbe potessero fare a meno dell'istruzione, perché le femminucce sono nate per stare in casa a servire l'uomo. Dunque, ignoranza, miseria erano i principi che facevano escludere i ragazzi dalla fonte del sapere. Quell'indifferenza, quell' ostilità preconcetta verso il sapere, forse era una incrostazione spagnolesca. Si sa che nella Spagna del '600, per esempio, non sapere leggere e scrivere era un titolo meritorio. E la Spagna - come si sa -lasciò tracce profonde in Sicilia, condizionandola lungamente nella sua cultura di vita.
Vale poi aggiungere che fra i ragazzi di quei miei tempi che frequentavano la scuola, non tutti giungevano al compimento dell'intero ciclo scolastico: i più arrivavano alla terza elementare e poi abbandonavano la scuola. Per i genitori era già tanto che il proprio figlio sapesse mettere la firma e far di conto. Conseguita la licenza di terza elementare si affrettavano a mandare il bimbo in campagna, a lavorare allo sbaraglio, sballottato dal turbinio del vento, dalle tempeste di neve e di pioggia; coperto solo da una sdrucita mantellina, in compagnia della paura, solo nella deserta terra. Ho un ricordo vivo nella mente che ancora oggi mi turba. Durante un'estate trascorsa in campagna, incontrai un bambino, un piccolo pastore che scorsi appresso a un centinaio di pecore, in un vasto campo di "restucce".
I bambini, si sa, amano stare insieme, sono attratti fra loro, e fanno presto a diventare amici, avendo, fra l'altro, il privilegio di non fare differenze sociali. E così mi avvicinai a lui che proprio in quel momento vedevo impegnato a lanciare una grossa verga per aria che poi sveltamente, con una abilità, che più tardi avrei ammirato negli sbandieratori toscani, la coglieva a mezz' aria, con espressione di compiacimento. Un esercizio che ripeteva in continuazione, forse per farsi notare; anche se non mi aveva degnato, sino a quel momento, di un solo sguardo; proprio come se io non ci fossi. Quell' esercizio lo faceva con impegno, come se si stesse addestrando per una gara. Le pecore brucavano l'erba secca, la "restuccia;", procedendo a passo lento, con pigrizia, nell' ambito di un terreno che era facile a quel bimbo controllare ed eventualmente intervenire affinché non sconfinassero nel campo vicino, ancora tutto da mietere. Del resto c'era anche un cane, un bastardo, che sapeva fare il suo dovere di custode delle pecore e di collaboratore del piccolo pastore. Le pecore e il cane erano gli unici compagni di quel ragazzino, le sole voci che interrompessero il silenzio di quella sua vita errante. Il belare delle pecore, l'abbaiare del cane, il soffio del vento, lo scrosciare della pioggia, il fragore del tuono erano le sole voci del mondo vivente, per lui.

Osservavo con ammirazione quel ragazzino che rivelava una particolare maestria in quel suo gioco. Non osai disturbarlo, e continuai a guardare affascinato. A un certo punto però i lanci della verga divennero più stanchi e dopo un po' il ragazzo smise completamente il gioco. Allungò lo sguardo sulle pecore, quindi si volse lentamente verso di me, guardandomi fisso e indagandomi dalla testa ai piedi. lo mi accostai a lui e lo salutai; ma egli volse lo sguardo verso le pecore e, senza guardarmi mi domandò, come se però parlasse al gregge, invece che a me: " Non ce l'hai tu le pecore? "

" No, ma mio nonno ne ha tante e anche molte vacche..."
" E chi le guarda... tutte tuo nonno? ".
"No, ci sono i pastori... ".
Seguì una lunga pausa, quindi egli si mosse lentamente, in modo goffo, spostandosi ai margini del campo di stoppie, andando a sedere sopra una pietra. lo lo seguii, sedendomi a mia volta accanto a lui, su una zolla di terra che era dura come una pietra, tanto era secca, arsa dal sole.

" Ci vai a scuola tu? " gli domandai. Non mi rispose, e il suo sguardo tornò ad allungarsi sul gregge, con indifferenza; uno sguardo pigro.

" Quanti anni hai - insistetti - io ne ho sette... "
."Anch'io" mi rispose; ma senza guardarmi in faccia.
"Allora devi venire a scuola...".
"A scuola non ci voglio andare" rispose stizzito, quasi con rabbia.

" Perché non ci vuoi andare? ".

"Perché... perché... Non te lo voglio dire; sono affari miei " mi rispose con voce risentita che ruzzolò nel vento.

Si alzò di scatto e andò verso le pecore, mettendosi in mezzo ad esse, col mento appoggiato su una mano che egli teneva posata, come per reggersi, sopra la punta del bastone che era tutto inciso, lavorato con disegni vari, intrecciati, arabescati, fatti con taglio e punta di coltello. E intanto egli ora fissava con gli occhi la cima alta del monte lontano, la cui sommità era tutta invasa dal sole lucente,sfavillante, e il pastorello cercava di proteggere i suoi occhi da quello scintillio accecante, portandosi una mano all' altezza della fronte.

Il sole era di un colore rosso-arancione, che man mano diventava sempre più rosso, un rosso infuocato, rapito lentamente dal monte: "Il sole rideva calando dietro il Resegone" come dice il Carducci nella sua canzone di Legnano. Lo vidi calare come se da oltre la cima, una mano lunga tirasse verso di sé il disco del sole e questi opponesse resistenza, ma una resistenza come dire, civettuola, come se non volesse scomparire precipitosamente, per fuggire dalla terra. Mi parve, anzi, che per un attimo si fosse fermata la sua discesa; forse un ultimo debole tentativo di resistenza. Poi, improvvisamente, fu come se precipitasse al di là del monte; e più nulla! Non lo vedemmo più. Ed il monte divenne grigio: era stato anch' esso vinto da quella mano lunga che aveva rapito il disco che lo aveva illuminato per tutto il giorno. Erano le prime ombre della sera che sopravveniva!
Il piccolo pastore rimase fermo a fissare, quel punto lontano del monte prima illuminato, come se tutto fosse ancora da compiere o che il sole, per lui, si fosse fermato lì, a cavallo della cima del monte. lo, invece, allontanai il mio sguardo dal grigiore del monte, ma rimasi vicino al giovane pastore, in attesa che desse una risposta alle mie domande: una risposta che però non giungeva, né credo egli si preoccupasse di darmene. Anzi, improvvisamente, egli si volse verso di me, guardandomi fisso, sollevò in aria il grosso bastone, e mi urlò: - «Vatinni, vatinni dunni vinisti!» - E riprese la sua posizione di prima, a guardare ora le pecore, ora il monte ch' era divenuto intanto sempre più scuro.
Io non obbedii alla sua ingiunzione, rimasi dov'ero, un po' sorpreso però di quello strano e inatteso atteggiamento che sentii assai ostile, di un' ostilità che ingenuamente non riuscivo a capire. Dissi solo: " Ma perché vuoi che me ne vada... che t'ho fatto?! ".
Allora si volse di scatto e mi gridò: " Ancora cca' si'? Vattinni, ti dissi..."
" Ma perché? " tornai a domandare, come una preghiera.
"Dai, fammi vedere ancora come fai a far volare il bastone e poi lo prendi in aria" gli chiesi per rabbonirlo.
Ma lui per tutta risposta, si chinò, afferrò una zolla di terra secca e dura e me la scagliò contro. lo feci un salto indietro per schivare il colpo, ma deciso a non andarmene.
Mi fece decidere lui però, quando alla prima zolla altre ne fece seguire, una appresso all' altra con una decisione e una precisione,francamente non mi lasciarono altra scelta che darmela a gambe. Ed egli smise di tirarmi solo quando mi vide fuori tiro dai suoi proiettili. Egli però tornò ad alzare in aria il bastone, ma non per riprendere il suo gioco, ma per minacciarmi ancora, facendo l'atto di tirarmelo addosso. Allora mi girai e presi a camminare nella direzione da dove ero venuto, in mezzo alle stoppie, di malavoglia: crucciato per avere ricevuto un trattamento che non mi aspettavo e che ritenevo di non avere meritato. Ho pensato spesso a quel piccolo pastore e al suo bastone minaccioso.All' epoca non capii il perché di tanto rabbioso comportamento. Ricordo però che mi fece assai male. Ripensando alle mie insistenti domande, alla sua ostinata volontà di negarsi e di essermi, anzi, ostile, trovo risposta nella logica della riflessione. L'uomo non teme le differenze, le distinzioni sociali, 'economiche, culturali, ma sino a quando qualcuno in modo diretto o indiretto non gliele fa rimarcare, fino a quando non lo chiama a constatare che quelle differenze sono le frontiere che lo separano da un altro suo simile. Allora avverte tutta l'ingiustizia che ne deriva, e nell'umiliazione risponde con rabbia, con ostilità; raramente con l'indifferenza. Ma quando tali situazioni vengono percepite da un bambino, allora quella frontiera diventa mortificante: una mortificazione che lo accompagnerà come un sigillo impresso sulla sua carne, per tutta la vita. Le regole della vita dovrebbero escludere le frontiere divisionali che ancora sussistono fra gli uomini, ma i bambini poi! Tutti i bambini sono parte di un mondo unitario e uguale, senza confini: sono componenti di un mondo infinito, formato soltanto dalla diversa umanità. Un mondo d'amore, di tenerezza, di solidarietà.

Il mondo nel quale oggi viviamo è diventato invece il ghetto del genere umano. La vita sembra diventata una condanna. Non è più un dono. E i bambini in ispecie sembrano destinati a subire tutti i malanni che discendono dalle colpe degli uomini.

Sì, la pietà è morta!.
Quel bimbo-pastore, dunque,.era un forzato della miseria. Nel suo animo c'era la volontà di essere come gli altri ragazzi della sua età che andavano a scuola. Ma la sorte lo aveva condannato a stare appresso alle pecore.
Egli sarà certo diventato un uomo, un pastore adulto, uno sposo, un padre e, forse, non immemore della mortificazione inflittagli da un' epoca indifferente e da una società che dava scarso valore al sapere del popolo, da padre avrà fatto studiare i suoi figli ,che magari saranno ora dei professionisti rispettabili. Ma forse essi ignorano che il loro padre aveva difeso la sua dignità di forzato dell'ignoranza a colpi di zolle di terra arsa dal sole, contro un altro bimbo, divenuto ai suoi occhi un privilegiato, un premiato della vita.
Oggi è stata sconfitta l'ignoranza, o meglio l'analfabetismo che era allora dilagante, è stato sconfitto quel punto di forza di;una società minoritaria, sazia, opulenta, ma digiuna dei valori universali della cultura, che quanto più è posseduta da tutti, tanto più fa ricchi di tutto, tutti. Non so se si possa dire che sconfitta l'ignoranza abbia vinto la cultura. Tuttavia è stato compiuto un gran passo avanti!

Per completezza voglio dire anche che le condizioni offerte dalla scuola di quei tempi, non erano certamente incoraggianti, né per i bambini né per i genitori che dovevano seguirli. Le condizioni della scuola erano aberranti: ambiente scolastico non idoneo, anzi inadatto a favorire l'arricchimento della mente e dello spirito. Al mio paese la scuola era situata in un locale vecchio e disadorno, collocato in un locale chiuso in un vicolo, le aule al buio, umide e fredde. Dalla scuola si poteva scorgere solo una strada sbilenca, ricavata dal «cozzo» che cadeva a strapiombo. Era un panorama avvilente. Chi, dunque, riusciva a frequentare tutti i cinque anni in quella scuola triste, buia e fredda, era sì un privilegiato perché voleva dire che era stato risparmiato dalla sacrificata vita del bimbo-contadino o del bimbo-pastore; ma era anche un eroe per avere resistito ad un ambiente deprimente. Ma i più si fermavano alla terza elementare, che era la licenza perché il ragazzo passasse al lavoro, vale a dire che era ritenuto valido per mettersi il sacco di sementi a tracolla e a spargerle, con le mani rattrappite dal freddo, lungo il .solco tracciato dall' aratro a chiodo. Da quel momento, il ragazzo era assurto improvvisamente al ruolo di uomo fatto, maturo. Quel sacco pieno di seme era il libro di lettura, la distesa infinita della campagna era l'orizzonte della storia, della geografia e di ogni altra conoscenza. La terra, l'aratro a chiodo, il vento, il freddo, il sole cocente, la fatica e l'umiliazione, erano tutto ciò che aveva per secoli formato il tessuto del sapere di tante generazioni. Devo aggiungere però che i ragazzi che lasciavano la scuola appena conseguita la licenza di terza elementare, avevano un vantaggio; non dovevano correre l'àlea di frequentare i successivi anni scolastici sotto la guida del maestro Macaluso che era il terrore dei ragazzi, o almeno tale era, ingiustamente, considerato. "



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