La vita sociale - III^ Parte -

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 27/11/2005
<b> La vita sociale</b> - III^ Parte -

La vita sociale - III^ Parte -

Il ruolo della donna

tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30 -’40 . Si ringraziano, per la gentile concessione, gli Eredi e l’Amministrazione comunale di Alia che nel 1997 ha curato la pubblicazione del libro.

" Il ruolo della donna nella vita della famiglia e nella comunità era essenziale e starei per dire determinante: essa era, senza retorica, veramente l'anima della vita dell'uomo, della famiglia. Erano poche le donne impiegate nei lavori della campagna; il loro impegno effettivo era nella famiglia dove l'uomo aveva solo ed essenzialmente un ruolo, una funzione di natura economica. Era l'uomo che lavorava per assicurare alla famiglia il necessario per vivere, ma era la donna che doveva gestire la vita della famiglia: impasta-artigianale'>pastare il pane e cuocerlo nel forno a legna, in casa; fare la pasta-artigianale'>pasta con "l'arbìtriu" , un marchingegno che veniva fatto funzionare a forza di braccia. Ma i compiti della donna erano molteplici e tutti impegnativi: doveva rattoppare, rammendare giacche, «causi» e fare la calza, nettare il grano, lavarlo, mettere ad asciugare perché fosse pronto per portarlo al mulino, e stare appresso ai figlioli e anche a quelle benedette galline.

Ma c'era poi da lucidare "quarari" e "quarareddi" i cui cerchi di rame dovevano essere sempre puliti e lucidi; effetto che si poteva ottenere solo con l'uso, della rena bianca e finissima, il limone e...olio di gomito. All'epoca l'attrezzatura di cucina era quasi tutta di rame. Ed era un vanto per la donna mostrare il suo rame lucido. Ma oltre alle cose di cucina, bisognava tenere lucido anche il braciere, anch' esso di rame, che nei mesi invernali, infuocato di ardente carbone, avrebbe scaldato la casa e attorno ad esso si sarebbe raccolta la famiglia a trascorrere le giornate fredde.

E nei mesi estivi c'era da fare anche "l'astrattu", che era la salsa di pomodoro messa ad asciugare al sole, sparsa su delle tavole. Richiedeva una vigilanza costante, attenta, per difenderlo dalle mosche che a centinaia ronzavano attorno, e anche dai maiali e dalle galline, affinché con le loro scorribande non facessero cadere le tavole appoggiate alla men peggio sulle sedie o sui trespoli di legno.

Alcuni anni or sono mi capitò di vedere, pubblicate in un libro che illustrava alcune immagini della Sicilia e della sua vita, due foto di tavole di "astrattu" che io credetti fossero due quadri d'arte "astratta" Erano, invece, tavole di "astrattu" che la sapiente mano di una contadina aveva inconsciamente realizzato, tracciando segni, girigogoli a casaccio, nell'intento di fare raffermare il sugo di pomodoro esposto al sole; dando così origine a veri e propri dipinti di fantasia artistica. Del resto la vita dell'uomo, comunque la si realizzi, è sempre arte, fantasia.

Le donne del mio paese non lo sapevano, ma esse erano artiste: i colori erano quelli espressi dal sugo di pomodoro, il pennello un cucchiaio di legno a cui si aggiungeva quel tocco maestoso della poesia, dettata dai raggi del sole caldo e luminoso, tratto dalla tavolozza della natura.
L'astrattu era un ottimo ingrediente per un buon ragù. Era, perché nell' odierno tempo l'astrattu, come tante altre cose del bel tempo antico, non si mostra più al sole di Sicilia; ed è possibile anche che i giovani d'oggi non abbiano mai visto le tavole piene di astrattu, come quelle che soleano esporre al sole le loro nonne.

Erano tanti i compiti, anzi i "doveri" che incombevano sulla donna: doveva fare anche i figli e se la sorte assegnava una filza di femmine, ne avrebbe scodellati tanti sino ad avere il sospirato "masculu", vanto e orgoglio della famiglia. E bisognava allevarli, allattandoli al proprio seno, naturalmente; seguirli a scuola e farli crescere meglio possibile; e se a sera il marito, tornando a casa, trovava un figlio che si era sbucciato un ginocchio cadendo, la colpa era della madre! La donna, insomma, era chiamata a tutte le responsabilità davanti all'uomo il quale, lo abbiamo detto, aveva solo il compito di mantenere la famiglia. Erano quelli tempi duri, tempi in cui la donna era veramente l'agnello sacrificale dell'uomo.

È stata convinzione generale che la donna sia stata concepita proprio per assolvere a compiti di servizio: essa sarebbe stata creata per essere donna, sposa, madre e servire l'uomo. Ne è prova che essa è stata fatta da una costola dell'uomo! Come volevasi dimostrare! !
La donna viveva quella sua vita carica di impegni e di responsabilità, in un ambiente di solitudine e di abbandono, in un paese le cui strade deserte si popolavano solo di maiali che grugnivano e di galline che razzolavano nel soffice e maleodorante tappeto di sterco essiccato dal sole, misto a paglia, che ricopriva le strade nei mesi estivi. Bisognava aspettare le piogge per vedere quelle strade pulite, mostrare le pietre al cielo. In mezzo a quel tappeto, vivevano, anzi impazzavano gli animali da cortile. Essi costituivano l'altra popolazione di Lalia, e tutti con diritto di residenza, di cittadinanza e di libera circolazione: diritto che aveva inizio all' alba e si concludeva sull'imbrunire. Questa era, infatti, l'ora in cui le donne si affacciavano davanti alla mezza porta di casa, con "u falàri" legato alla vita, e con voce, quasi materna,persuasiva, invitante, a volte gutturale o a falsetto, chiamavano le galline a rientrare nei loro recinti che, generalmente, erano situati nelle stesse abitazioni. Accompagnavano i richiami, spargendo nel contempo manate di "stagghiu" per attrarre l' attenzione dei pennuti. Man mano chele galline si avvicinavano verso il cibo, la donna arretrava sino a farsi seguire fin dentro la casa. A quel punto chiudeva sveltamente la porta e le galline erano al sicuro.
Poi si metteva a contarle, una per una: era quello il momento della verifica, il più emozionante. Sì, perché accadeva qualche volta che il conto non tornasse; allora cominciavano le preoccupazioni, le disperazioni e "acchianàvanu li quaranàti", ossia, per effetto dell' ansia, diveniva rossa in viso: il sangue, insomma, le si rimescolava talmente in corpo al punto che lo sentiva tutto aggroppato in testa. Allora la disperata donna usciva fuori infuriata ed emettendo strani suoni gutturali che parevano convenzionati con la gallina mancante,la chiamava accoratamente, allungando a un tempo lo sguardo sulle strade vicine nella speranza di scorgerla; e intanto, domandava ai vicini se avessero visto la sua "pirnicigna" .

Come facessero a distinguere le proprie galline dalle altre non proprie, è sempre stato per me un mistero. Eppure ogni donna sapeva riconoscere le sue galline, alla stregua di come una madre sa riconoscere i suoi figli. Non c'era rischio che si sbagliasse! Se dopo tante ricerche, chiamate accorate, la gallina non si presentava all'appello, allora non c'era più dubbio: qualcuno l'aveva rubata, spennata, messa in pentola a fare il brodo. Caduta ogni speranza, la donna non si rassegnava ancora, anzi si agitava vieppiù: avanzava con le mani ai fianchi verso il centro della strada e lanciava maledizioni, augurando malanni d'ogni specie contro chi le aveva rubato la sua "pirnicigna" , della quale non mancava di esaltare le bontà più varie, e quante uova faceva al giorno e quanto era bella, giovane e come era sempre stata puntuale e precisa nel rientro a casa, assieme alle altre, come una ragazza di buona famiglia.

Insomma le virtù della scomparsa si mescolavano alle maledizioni, "astìmi", contro gli ignoti ladri che avevano osato trasformare quella sua brava gallinella in una volgare pentola di brodo. E 'annusava l'aria attorno per avvertirne l'eventuale odore; inconfondibile.

E non finiva qui perché la derubata, che nella notte non aveva chiuso occhio per il dispiacere, lambiccandosi il cervello per cercare di individuare l'eventuale ladro, il giorno appresso, all'alba, iniziava una vera e propria indagine per scoprire il colpevole, "mica per altro"- si diceva - "tanto ormai la gallina"ci l'appizzàiu": un qualsiasi segno, indizio che la portasse a scoprire il furbo ladro; così... tanto per saperlo. E cercava fra le immondizie nelle strade, nella speranza di scorgere una qualche piuma della scomparsa sua gallina: un indizio qualsiasi che la portasse a conoscere... sapere. E se i furbi ladri, per precauzione fossero andati a gettare le penne a "li cumuna", quella specie di immondezzaio generale, in terra di nessuno, di proprietà del Comune, che serviva da discarica, come si direbbe oggi, dove tutti andavano a depositare lo sterco raccolto nelle stalle, nonché i bisogni corporali dei bipedi implumi, e ogni altra immondizia, ebbene, anche in quel camposanto di ogni fetore, la derubata andava a cercare i segni eventuali della sua "pirnicigna".

E opportuno precisare che il camposanto di fetore si trovava fuori e distante dal paese; non tanto però che nei giorni di tramontana non se ne avvertisse sufficientemente la presenza nell' aria. Ed affinché non si pensi che quel fetore stesse sempre lì ad appestare l’aria, dirò che l'Amministrazione Comunale provvedeva tutti gli anni, nei mesi estivi, a bruciare il «raccolto» di un'intera annata che, pertanto si trasformava in fumo che annebbiava il sole e soffocava l'aria del paese per qualche giorno. Certo, tutto non si poteva avere!

In ogni modo quel cimitero di fetore, devo dire, ad onor del vero, era da preferire - se mi è consentito - alle discariche d'oggi, distribuite senza alcuna regola in tutto il nostro Paese, e dove si trovano pestiferi prodotti della civiltà moderna, veleni d'ogni specie che costituiscono una grave ipoteca per la salute dell'uomo. Sì, mille volte meglio i "fumazzara" di quel mio tempo! Meglio assai Annuzza e Cuosima, le due donne addette, a quei tempi, per pochi centesimi, a trasportare i "càntari" a "li cumuna", che certi industriali d'oggi che speculano miliardi sulle pestifere discariche! Perché noi oggi viviamo nella civiltà dei rifiuti. "


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