LE TRADIZIONI - VIII^ Parte -

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 02/12/2005
<b>LE TRADIZIONI</b>  - VIII^ Parte -

LE TRADIZIONI - VIII^ Parte -



tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30 -’40.
Per la gentile concessione alla divulgazione telematica del libro, si ringraziano sia gli Eredi dell’Autore sia l’Amministrazione comunale di Alia, che nel 1997 ne ha curato la prima edizione.

Il tempo del raccolto

- la mietitura -

“ Erano ancora in cielo le stelle e dalla Matrice l'orologio aveva appena scandito le quattro ore della notte. Nelle case, a poco a poco, si accendevano i lumi e dai vetri delle finestre filtravano le luci e si udivano voci ancora assonnate, voci distaccate, suoni imperfetti che si percepivano appena, nel silenzio. Non erano conversazioni ma segnali di voci che si comunicavano stentatamente, mentre i muli, i cavalli scalpitavano, sfiatavano, dando segni che anch' essi erano pronti a fare la loro parte a servizio degli uomini. Questi, intanto li sellavano, caricavano bisacce e attrezzi vari e partivano tenendo per le redini le bestie. Poi tutto precipitava nel silenzio. Non si udivano più voci, ma solo il suono metallico degli zoccoli ferrati delle bestie che sfregavano sulle strade fatte di pietre; un suono che man mano si perdeva lontano, inghiottito dallo spazio.
Si spegnevano i lumi e le donne tornavano sotto le lenzuola a dormire, ché l'alba era ancora lontana.
Prima che le luci dell'alba giungessero a spezzare le ultime ombre della notte, i contadini erano già nei campi, e come soldati schierati in prima linea, armati di falci, andavano all' assalto della trincea dalla quale dipendeva la loro vita e quella di tutto un popolo: aveva inizio così il meraviglioso rito della mietitura. Gli uomini, chini in quel dorato mare, di spighe, non si vedevano nemmeno: come fossero stati inghiottiti da quella massa alta ed estesa i cui confini sembravano ,infiniti. Iniziavano a mietere che appena albeggiava, e al primo sole si potevano scorgere larghe chiazze di campo già mietuto e, fra le stoppie, sparsi qua e là, mannelli di spighe coi quali man mano i mietitori formavano grossi covoni che legavano servendosi di un filo d'erba, la "liama". E mentre i mietitori continuavano a falciare, altri uomini caricavano i covoni sui muli, legandoli con le corde a "li sidduna", e li trasportavano sull'aia, davanti alla masseria. La mietitura del grano era il lavoro più faticoso e impegnato, ma gli uomini lo facevano di buona voglia, nella speranza che il risultato fosse abbondante. I mietitori restavano a lavorare tutto il giorno sotto il sole infuocato; ogni tanto afferravano "u bummaru" per dissetarsi e dare refrigerio ai loro corpi polverosi e madidi di sudore.
A mezzogiorno sospendevano il lavoro per la colazione alla quale seguiva un brevissimo riposo: giusto il tempo di fumare una sigaretta o un mezzo sigaro; e poi di nuovo chini fra le spighe a mietere e a trasportare i covoni. Era già buio e nel cielo comparivano le stelle come candele sospese nell'aria, quando finalmente i contadini cessavano il lavoro: abbandonavano i campi e si avviavano lentamente verso la masseria. E mentre camminavano lanciavano sguardi profondi sui campi già mietuti e poi a quelli ancora da mietere, calcolando ad occhio e croce quanti giorni di fatica restavano ancora per portare a termine il lavoro. Alla masseria trovavano le donne che già avevano preparato la cena. A lume di luna, gli uomini, accovacciati sulle pietre, mangiavano in silenzio, ma in loro c'era tanto appetito quanta voglia di riposare le stanche membra su un giaciglio di paglia. E così, finito di mangiare, bevuto un ultimo sorso di vino, mentre le donne, silenziose, stanche pure esse, pensavano a pulire, rassettare, a mettere ordine, gli uomini, governate le bestie, afferravano una bisaccia o un telo, li stendevano sulla paglia nell' aia, e di lì a poco russavano; guardati dall' alto dalla luna splendente, alla quale facevano compagnia le cicale, le rane coi loro canti notturni. Erano quelle le uniche voci che si levavano nel silenzio ovattato della notte e che solo le stelle sanno ascoltare; e qualche volta anche 1'animo umano ne sa percepire il misterioso messaggio.
Meravigliose notti che si spegnevano all' alba e gli uomini si svegliavano sotto i brividi della guazza, caduta nella notte sull'aia dove essi avevano dormito. Un nuovo giorno; una nuova parentesi di vita che si donava, espressa così magnificamente dalla natura, offerta all'uomo per goderne, per arricchire la sua coscienza, disponendolo per ciò ad accettare la vita nel bene e nel male, secondo i suoi precetti, dai quali discende la tranquillità della nostra esistenza.”


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