LE TRADIZIONI - X^ Parte -

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 02/12/2005
<b>LE TRADIZIONI</b>  - X^ Parte -

LE TRADIZIONI - X^ Parte -



tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30 -’40.
Per la gentile concessione alla divulgazione telematica del libro, si ringraziano sia gli Eredi dell’Autore sia l’Amministrazione comunale di Alia, che nel 1997 ne ha curato la prima edizione.

Il tempo del raccolto

- il trasporto del grano dall’ aia ai magazzini -

" Per trasferire il grano dalla campagna al paese, c'erano le bisacce e le "visazzotte" (quest'ultime avevano la forma di due cuscini di tela forte, legate fra loro mediante una cucitura che ne faceva due scompartimenti separati. La bisaccia e la "visazzotta" contenevano, rispettivamente quattro tumoli di grano, ossia cinquantasei chilogrammi, vale a dire mezza sarma di grano.
Quando ero bambino mi piaceva assistere a tutte quelle operazioni: sempre uguali, precise, e seguivo con interesse soprattutto i movimenti del contadino che, chino sul grosso mucchio di grano, riempiva «lu tumminu» con gesti veloci e sempre uguali, poi, quando era "raso", lo afferrava con decisione, lo alzava, facendogli compiere un mezzo giro, una piroetta, e lo svuotava nella bisaccia, tenuta aperta da due contadini che, sveltamente, appena riempita, con mosse abili ne arrotolavano le aperture, legandone le estremità con una cordicella che era parte della bisaccia stessa. Spesso le bisacce e le "visazzotte" erano ornate, con una certa civetteria, di nappe colorate e vi erano impresse anche le "cifre", iniziali del nome del possidente, il monogramma, insomma; un segno di distinzione.
In quei giorni ultimi di lavoro, lungo le "trazzere" e fra i campi di restucce, era frequente incontrare qualche frate cercatore che, a cavallo di un robusto mulo, andava da un' aia all' altra per ricevere dai contadini il tradizionale omaggio annuale in onore di questo o quel santo, di questo o quel convento. E arrivava sempre nei giorni in cui il grano era per essere caricato sui muli e trasportato: giungeva sempre, insomma, a conclusione della raccolta.
" Sia lodato Gesù Cristo. La Madonna di Gibilmanna vi benedica tutti! " Così salutava il frate appena giunto sull'aia. Scendeva da cavallo, legava la mula sotto un albero, e i bambini erano i primi ad accorrere e a circondario allegramente e fare a gara a chi prima doveva baciare la corona del rosario che egli portava legata come una cintura alla tonaca; in compenso ricevevano un santino che essi baciavano, come era stato loro insegnato.
Le donne con riverenza e rispetto, si affrettavano a portare un fiasco di buon vino affinché il gradito ospite si dissetasse. Gli uomini sospendevano il lavoro, si radunavano anch' essi attorno al cappuccino e scambiavano quattro chiacchiere che, manco a dirlo, avevano per argomento sempre l'andazzo della nuova annata agricola. Poi i contadini riempivano un paio di "tummina" di frumento e li svuotavano nella bisaccia del fraticello.
Era una tradizione secolare: egli giungeva tutti gli anni per ricevere il pegno di devozione, ed offriva preghiere. Ai generosi contadini lasciava un'effigie della Madonna di Gibilmanna, che era molto venerata dalla gente di Sicilia, da attaccare dietro la porta della propria casa per essere protetti da ogni malanno e, naturalmente, per invocare la grazia di copiosi frutti. Il frate, prima di riprendere il suo peregrinare, lasciava alle donne un po' di sarde salate, che erano assai gradite.
Poi rimontava a cavallo del suo mulo e ripercorreva, sotto il sole, la via delle trazzere e dei viottoli, verso altre masserie. Ogni anno era sempre lo stesso: quando cambiava, voleva dire che quel frate dal viso tanto familiare era passato a miglior vita, e un altro lo sostituiva.

Aveva inizio ora una processione di muli che per molti giorni avrebbero trasportato il prezioso grano del nuovo raccolto nel Paese: in maggior misura il grano andava a finire nei capaci magazzini del latifondista e del gabelloto; in misura minore nella casa del metatiere e del piccolo affittuario che per un anno intero avevano lavorato la terra con sudore e fatica.

"Lu burgisi" non aveva da spartire con nessuno: era tutto suo il prodotto perché era sua la terra, ed era lui che aveva lavorato e tribolato per un anno. Ma anche se per il mezzadro e il piccolo affittuario il compenso era magro, tuttavia erano medesimamente felici di potere assicurare il necessario alla famiglia.
Il trasporto del grano avveniva con pochi muli o con la «riétina» di muli, a seconda del valore della proprietà: il latifondista aveva la "riétina", il metatiere e il piccolo affittuario e lo stesso "burgisi", con una o due muli al massimo.
Io ricordo che a Lalia c'era una sola "riétina" che furoreggiava in quell' epoca: la "riétina" di mio nonno Gioacchino, formata da dieci muli e mule, alla cui testa c'era una cavalla, ed era guidata dall' "urdinaru", uomo di fiducia che aveva il compito di fare il capo "riétina", responsabile delle bestie e del carico: l'uomo doveva vigilare sulla sicurezza dei trasporti, e non solo del grano, dalla campagna al paese e viceversa. La "riétina", in quell' occasione, veniva addobbata con solennità, a festa: giumente e muli erano bardati con finimenti scelti, nappe e nastri di colori vari, campanelli attaccati agli orecchi, e "cianciàni" che adornavano la testa e la criniera. Cosicché quando la riétina attraversava le strade del paese, la gente, sentendo quell' allegro suono nell' aria, si affacciava ai balconi, usciva fuori in istrada ad ammirare quella sfilata di animali carichi di grano. E sempre come fosse la prima volta.
Era uno spettacolo folcloristico, degno di ammirazione, che dava certo il segno di distinzione, di potere, ma che era anche rappresentazione di un avvenimento che generava allegria, soddisfazione e, per quei tempi, altresì sicurezza per la collettività. Perché il raccolto, anche se distribuito in proporzioni diverse costituiva in modo diretto o indiretto, la garanzia di vita per tutti. Poteva essere, ed era, infatti, ingiusto il criterio di spartizione del prodotto tra padrone e contadino, ma la riétina vestita a festa che attraversava le vie silenziose del paese non era solo un rito padronaIe, ma anche il segno di vita di un popolo. Ed era un patrimonio anche culturale che apparteneva a tutti, una tradizione secolare che, nel bene e nel male, aveva segnato, inciso il processo di crescita di tutta la comunità.

Ho voluto ricordare anche questo simbolo di valore culturale che appartiene ormai al passato, perché, prescindendo dallo spirito padronale che lo caratterizzò e lo distinse, anche la "riétina" col suo folcloristico segno, appartiene alla storia di questo popolo...

Ora sono soltanto ricordi, null' altro che ricordi. Brandelli di vita, di storia, rime disperse di un antico poema che non si recitano più: rime mute. Come lapidi.
Del resto, vuoi che si trattasse di "riétini inciancianati e incampanellati", vuoi che il trasporto del grano fosse fatto con l'impiego di una o due mule, chiunque guidasse quelle bestie cariche di prezioso grano, era un soldato, un cavaliere vittorioso della più antica battaglia, che era appartenuta e apparteneva da sempre alla coscienza della comunità, che da quella vittoria traeva ragione di vita.
L'uomo guidava le bestie cariche di bisacce gonfie di grano, percorrendo viottoli e trazzere per lunghe ore, sotto il sole e il caldo oppressivi, accompagnato solo dal cri cri dei grilli, guardando fisso in avanti, come un maratoneta che allunga lo sguardo verso lo spazio che ancora lo separa dal traguardo. Quando giungeva nelle vicinanze del paese, fermava gli animali, scendeva da cavallo controllava che tutto fosse in ordine; rimontava a cavallo e percorreva le vie del paese con la fierezza di un combattente che ha compiuto il proprio dovere. Quando poi giungeva alla sua dimora o al magazzino del padrone, stanco e grondante sudore, lentamente cominciava a sciogliere le corde che tenevano trattenute le bisacce sulle selle, le afferrava, se le caricava a una a una sulle spalle, con uno strattone che lo faceva barcollare, e andava a svuotarle, formando un mucchio di grano che ad ogni viaggio si accresceva sempre più.
I contadini conservavano il grano dentro speciali cilindri, fatti di canne intrecciate, chiamati "cannizzi", e dove il prodotto si manteneva bene, soprattutto era protetto dall'umidità. Il cannizzo era il deposito da dove, durante l'anno, alla bisogna veniva prelevato il grano, facendolo scorrere da un apposito buco, disposto in fondo al cilindro di canne intrecciate. Gli agrari, non avevano bisogno dei cannizzi: lo vendevano subito; qualche volta addirittura sull' aia.
Così, dunque, in quei giorni era un via vai di uomini, di muli carichi di bisacce e visazzotte che durava per molti giorni. "


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