RITORNO ALLE RADICI - II^ Parte -

Radici & Civiltà

LO BLUNDO CLAUDIA LO BLUNDO CLAUDIA Pubblicato il 06/12/2005
<b>RITORNO ALLE RADICI</b>  -  II^ Parte  -

RITORNO ALLE RADICI - II^ Parte -



zi’ Totonne




La casa che era appartenuta alla nonna, da anni era abitata da estranei; io non vi ero mai entrata dentro perché non ne avevo sentito la necessità, non mi era mai interessato, ma ecco, all’improvviso, mi assaliva come un rimpianto: “Quella casa appartiene al passato di nonna Marisunta ed appartiene anche al mio passato; chissà come si svolgeva la vita lì dentro, mi piacerebbe saperlo!

Mi piacerebbe visitarla per poterla ricordare in seguito: deve essere un palazzotto di poco conto, costruito su una base quadrata che si affaccia su un primo cortile e poi, andando verso l’interno, dopo un sottopassaggio a forma di arco si trova un secondo cortile; ed in quel cortile, raccontava la nonna, si trovavano due alberi di non so che frutto e la nonna con le sue sorelle tendevano un’amaca tra i rami dei due alberi e si lasciavano dondolare!”

Mentre pensavo in quel modo mi sembrò di prendere coscienza che nel racconto di questo ed altri episodi legati alla sua vita d’infanzia, il tono della nonna si colorava di dolci sfumature quasi si fosse trattato di esperienze magiche; ed era accaduto lo stesso durante i racconti fatti dal nonno: racconti della sua vita, episodi dai quali affioravano i ricordi di amici che, con la loro dipartita da questa terra, lo avevano lasciato, ad ogni distacco, sempre più triste e più solo perché aveva sentito sfumare nel nulla una parte di vita, quella vissuta con quell’amico o quel parente che non c’era più.

Stavo comprendendo perché né lui né la nonna avrebbero potuto trovarsi bene altrove: le loro radici erano in quel loro paese dove le montagne e le colline circostanti erano abitate da streghe cattive e dispettose che amavano mangiare gli incauti uomini che osavano avventurarsi tra i boschi; nel loro luogo natale ogni casa, ogni strada, ogni albero era legato ad un’esperienza di vita vissuta in modo così intenso da trasformarlo in ricordo; il nonno non avrebbe potuto trovare altrove un posto migliore perché lui aveva radicato le proprie radici nella sua terra, laddove aveva la vicinanza di persone simili a lui, gente che, come lui, amava mostrarsi spontanea, che onorava il senso della famiglia, dell’amicizia, della fraternità.

Mio malgrado, mi sorprendevo a riflettere che anche io appartenevo a quei luoghi ed affondavo la mia vita in quelle radici; ma qualcosa, nel contempo, non mi rendeva familiari quei luoghi: io appartenevo ad una nuova generazione, quella che si è messa in marcia per uscire dal proprio paesello, dai propri confini, e che ha assistito alla partenza di numerosi compagni disposti ad andare a lavorare lontano, fuori casa pur di non lavorare la terra; una trasformazione sociale che risaliva al momento del boom economico o anche già da prima, alle necessità del dopo guerra, ai benefici sognati con le emigrazioni, una trasformazione legata alla trasformazione culturale dei giovani che, più istruiti dei propri padri, avevano disdegnato il lavoro della terra quasi fosse un’attività inutile, da disprezzare perché legata a fatiche ed incertezze in una realtà sociale, quella degli anziani, dove il contadino povero, tanti anni fa, non era a conoscenza di leggi o sovvenzioni che lo avrebbero aiutato a svolgere il proprio lavoro in maniera più dignitosa e meno faticosa.

Mi stavo rendendo conto che, pur se sospinta da motivi diversi, anche io avevo lasciato la mia terra: se non appartenevo alla schiera della mano d’opera che ha abbandonato la campagna, appartenevo alla fuga dei cervelli, gente che, per dirla in maniera elegante si è realizzata fuori ma che, per dirla, invece, in maniera più cruda perché più reale, ha abbandonato i luoghi nativi perché solo lontano da lì ha trovato il modo per vivere in maniera più decorosa e secondo quegli orizzonti che la cultura, la radio e la T.V. presentavano già come irrinunciabili

Mi stavo cullando nell’idea che forse avrei fatto bene ad approfittare di quel triste rientro da New York per fermarmi definitivamente in paese, ma ebbi la sensazione che ritornare e riadattarmi alla vita di paese mi sarebbe stato problematico così come in passato era già accaduto a tanti giovani, andati via prima di me, che erano tornati e si erano adattati con fatica alla vita di paese.

In quel momento compresi che ciò dipende dal fatto che non si è dato modo ai propri ricordi di fare presa nell’animo giovanile trasportato e coinvolto da altre visioni, da altre esperienze anche se non sempre piacevoli, perché chi parte deve affrontare la vita delle città, con ritmi ben diversi, ben più frenetici e distratti rispetto il modo di vivere che, ancora oggi, esiste nei paesi: nelle città i rapporti umani sono più diradati perché la popolazione è più numerosa, le distanze eccessive, le occasioni per distrarsi sono diverse e dislocate in luoghi lontani l’una dall’altra, sicché risulta più facile disperdersi, non incontrarsi e non cementare amicizie e rapporti cordiali.

Durante i miei dieci anni di assenza avevo neutralizzato i miei ricordi, per evitarmi quella sofferenza intima che, chissà quante volte, avrebbe potuto indurmi alla malinconia e così mentre mi domandavo dove fossero finiti i miei ricordi, che a distanza di anni mi apparivano ben poca cosa, me ne affiorò alla memoria uno, quello di una piacevole scampagnata tra i boschi, lungo la via che porta a S. Filomena, quando avevo quindici o sedici anni ed ignoravo l'episodio vissuto da nonna Marisunta, tanti anni prima ed in quegli stessi luoghi.

Cullata dal dondolio della vettura, avevo chiuso gli occhi desiderosa di far riaffiorare anche al mio sguardo, se fosse stato possibile, la vivezza di quel ricordo.

Quel giorno di tanti anni prima avevamo trascorso una giornata di festa sui prati attorno al vecchio santuario di Santa Filomena; eravamo in tanti e formavamo un gruppo numeroso, nonni, zii, cugini, le commarella ed i comparelli con le rispettive famiglie; ci eravamo riuniti in occasione di non so quale festa, una di quelle che vedevano sciamare verso le campagne, i prati ed i boschi, intere famiglie che avevano caricato sui carretti e sui cavalli cibarie da consumare allegramente in quel giorno di festa. Era presente anche la bisnonna: nonna Nannina, ormai novantenne, non sarebbe mai mancata ad un festa ed era giunta su un carretto guidato da un cavallo adornato di fiocchi e di nastri dai diversi colori.


Claudia Lo Blundo


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