EMIGRAZIONE DURANTE IL PERIODO FASCISTA ( II^ PARTE )

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 13/01/2006
<b>EMIGRAZIONE DURANTE IL PERIODO FASCISTA </b> ( II^ PARTE )

EMIGRAZIONE DURANTE IL PERIODO FASCISTA ( II^ PARTE )

A cura di Maria Rosaria Porfido,

sociologa e studiosa dei cambiamenti della famiglia italiana negli ultimi trent'anni e dell'analisi sui flussi migratori degli italiani all'estero dalla fine del secolo scorso ad oggi.

Fidando in questa seconda tendenza, gli italiani si illudevano che le restrizioni del 1921 non fossero che misure transitorie e che presto gli americani, "trovandosi a corto di braccia per i lavori agricoli ed edili, sarebbero stati indotti a riconoscere l'errore commesso ed a porvi riparo".

Nei primi mesi di governo, Mussolini non perse occasione per sottolineare a Washington l'importanza di una collaborazione in campo migratorio e tentò di rimuovere, almeno formalmente, ogni possibile motivo di diffidenza degli americani.

Alla tradizionale eccedenza di manodopera si aggiungeva infatti una questione di ordine contingente, nel senso che una liberalizzazione delle quote di immigranti ammesse negli Stati Uniti avrebbe consentito di attutire l'impatto del programma fascista per una riduzione degli effettivi sia nei servizi pubblici che nell'esercito.

Ad alimentare le illusioni di Roma, giunsero, ai primi di novembre del 1922 le dichiarazioni del Segretario di Stato al Tesoro, il quale, "constatato il rincaro del costo della vita, provocato dalla penuria di manodopera, auspicava una modifica delle restrizioni all'immigrazione, che permettesse l'ingresso negli Stati Uniti di un maggior numero di lavoratori, limitando, al contempo, l'introduzione di immigranti non lavoratori".

Mussolini non perse tempo per sfruttare l'apertura di Washington.
Il giorno immediatamente successivo, convocò i rappresentanti della stampa americana a Roma e, dilungandosi sui benefici effetti che avrebbero potuto derivare da una combinazione del capitale americano e del lavoro italiano, concordò pienamente sulla opportunità di una emigrazione selettiva.

In quest'ottica, egli suggeriva che la quota di immigranti italiani negli Stati Uniti venisse aumentata dalle attuali 42.000 unità alle 100.000 unità annue.

L'efficacia della linea seguita dal duce sembrò confortata da una comunicazione "riservata" da Washington, secondo la quale il presidente Harding sarebbe stato sul punto di chiedere al Congresso "l'ammissione di lavoratori qualificati dei quali gli Stati Uniti sentivano fortemente la necessità".

Ogni speranza era tuttavia destinata ben presto a cadere. Alle pressioni di Mussolini presso l'ambasciata americana a Roma per conoscere le reazioni di Washington alla propria proposta ed alle conseguenti sollecitazioni dell'incaricato d'affari, Gunther, per una risposta quanto meno interlocutoria, l'Ambasciatore americano rispondeva "di rendersi perfettamente conto dell'importanza del problema, e di riservarsi di tenere al corrente la sede di Roma, di ogni successiva istanza, che fosse stata avanzata dal nuovo ambasciatore a Washington, Caetani".

Accoglienza altrettanto negativa, ebbero nei mesi successivi i sondaggi di Caetani presso il Sottosegretario al Lavoro, J. Davis, circa un possibile maggiore assorbimento di manodopera agricola italiana, per colmare le carenze nel settore, denunciate dal Department of Agricolture.

Nessuna reazione ufficiale seguì alla conferenza stampa rilasciata ai giornalisti americani dal Commissario all'Emigrazione de Michelis, il quale, sottolineando che a fronte di 42.000 emigranti, che avevano ricevuto il visto di ingresso negli Stati Uniti, rimanevano oltre 200.000 domande inevase, esprimevano l'intenzione del governo italiano di rilasciare permessi di partenza, unicamente ad elementi reputati idonei, in funzione dei programmi agricoli ed industriali della Federazione.

Visto il fallimento degli approcci diretti con il governo americano, il duce prese allora l'iniziativa per una Conferenza Internazionale sull'Emigrazione, da tenersi a Roma nel maggio 1924, fra tutti i Paesi direttamente interessati al problema.

Il carattere strettamente tecnico e non diplomatico della conferenza, "il cui scopo era di stabilire alcuni principi basilari per le future convenzioni in materia di emigrazione" veniva ripetutamente sottolineato nel memorandum inviato al Dipartimento di Stato per sondare la reazione degli Stati Uniti all'iniziativa.

Per ovvie ragioni di "immagine" a livello internazionale, Washington non poteva declinare l'invito italiano. Tuttavia accettò con alcune sostanziali riserve. Doveva infatti rimanere inteso, che le discussioni sarebbero state soggette a certi limiti, come ad esempio il fatto che "l'accettazione degli immigranti costituiva una questione di politica Interna degli Stati Uniti, sulla quale era riconosciuta l'esclusiva autorità del Congresso" .In altri termini, conditio sine qua non era che non venissero messe in discussione le misure restrittive sull'immigrazione.

Tali riserve vennero accettate di buon grado dal governo italiano, che mirava ad assicurarsi ad ogni costo la partecipazione statunitense, senza la quale l'intera Conferenza sarebbe stata svuotata di ogni contenuto.

Il loro vero significato apparve tuttavia chiaro alcuni mesi più tardi, quando vennero presentati al Congresso, dai Senatori Reed e Johnson, due progetti di legge, che prevedevano misure ancora più severe di quelle decise con l'Atto del 1921.

Il memorandum italiano, nel quale veniva fra l'altro raccomandata l'ammissione extra-quota dei parenti dei cittadini già residenti negli Stati Uniti, rimase apparentemente senza risposta. Tuttavia, anche in vista della prossima apertura della Conferenza sull'Emigrazione, Mussolini tentò in tutti i modi di sdrammatizzare la questione, ponendola su un piano di collaborazione internazionale.

Nel discorso inaugurale della Conferenza, pronunciato in Campidoglio il 15 di maggio, pur puntualizzando che "i Paesi di emigrazione non dovevano interferire nei problemi dei Paesi ospitanti cosi come i Paesi di immigrazione non dovevano estendere il loro intervento al di là del loro territorio", sottolineava la necessità che "da parte di tutti venisse attuata la più stretta collaborazione, affinché il trasferimento di individui da un Paese all'altro avvenisse con soddisfazione di tutti e nel reciproco interesse".

Formalmente il discorso era diretto a tutti e cinquantanove i Paesi partecipanti. In realtà, interlocutore principale era il governo degli Stati Uniti. Chiaro era il riferimento ai progetti di legge Reed e Johnson.

Ma se Mussolini nutriva ancora qualche speranza della temporaneità del fenomeno, o magari, cosa oggettivamente abbastanza improbabile, che una qualche eccezione venisse prevista per i lavoratori italiani, queste speranze venivano ben presto deluse. Qualche giorno più tardi, il 26 maggio, veniva emanata la legge Johnson.

La seconda alternativa venne progressivamente scartata. Se, nel 1926, Mussolini definiva ancora l'emigrazione "una necessità sia pure triste e dolorosa, ma una necessità ... utile peraltro a migliorare le relazioni economiche e commerciali della madre patria", negli anni successivi, il governo fascista seguì una politica di volontaria restrizione del fenomeno migratorio. Non rimaneva quindi che la via della colonizzazione, o meglio di quella che veniva definita "emigrazione tutelata".

Non solo l'emigrante veniva accuratamente selezionato, perché potesse fungere da strumento di propagazione dell'ideologia fascista, ma le sue attività all'estero trovavano spesso un supporto finanziario nei capitali erogati dall'Istituto di Credito per gli Italiani all'Estero.

Chiaramente, tuttavia, era impensabile che una simile linea politica potesse essere applicata negli Stati Uniti, che non avrebbero mai potuto accettare che l'emigrazione italiana avvenisse, "sotto la sovranità nazionale".

Per questa ragione, un secondo motivo di attrito venne a crearsi fra Roma e Washington relativamente alla naturalizzazione degli "italiani" residenti nella Federazione. Mentre il governo americano sosteneva che le persone emigrate, ormai cittadini americani, dovessero avere obbligo esclusivo di fedeltà agli Stati Uniti, l'Italia riconosceva l'espatrio solo entro certi limiti, che assicurassero una continuità di dipendenza dalla madre Patria. Ad esempio, il neo cittadino americano, pur essendo riconosciuto come tale dal governo italiano, non era per questo esentato dal servizio militare in Italia.

Più volte l'ambasciata di Washington sollecitò Mussolini a chiarire in modo definitivo il problema. Nel maggio 1928, il duce rilasciò alla stampa americana alcune formali dichiarazioni sul disinteresse del governo fascista per i naturalizzati americani, che erano ormai considerati "stranieri a tutti gli effetti e legati alla madre patria da vincoli puramente spirituali". Ma, in contrasto con tali affermazioni, peraltro ribadite al Senato nel giugno successivo, veniva emanato un decreto che sanciva esplicitamente che, a prescindere dal Paese di residenza, un cittadino italiano doveva rimanere tale fino alla settima generazione.

Il nuovo Immigration Act, costituiva infatti una drastica restrizione, su base permanente, dei flussi immigratori, e fra i Paesi più colpiti era ancora una volta l'Italia, la cui quota annua veniva ridotta a meno di 4000 unità.

La legge venne considerata da Mussolini un "vero e proprio insulto nei confronti dell'Italia". L'avere preso come base per la valutazione delle quote il censimento del 1890 privilegiava infatti in modo ancora più eclatante i popoli della "first immigration". E l'Italia si sentiva discriminata a favore dei Paesi del Nordeuropa, ivi compresi gli ex nemici come la Germania, ed accomunata con gli indesiderabili dell'Europa orientale e dell'Estremo Oriente.

Gravi ed estese furono comunque le ripercussioni della legge del 1924 sull'economia italiana. Tanto estese da provocare una svolta nella stessa politica migratoria del regime e da far presumere che nel Johnson Act trovi, se non i suoi presupposti, quanto meno una formale giustificazione il successivo espansionismo fascista. Il pregiudizio derivante dalle misure statunitensi in materia di immigrazione andava infatti ben al di là della difficoltà di collocare l'eccedenza di manodopera.

Fra l'altro, nel quadro di una situazione economica sempre più precaria, con i caratteri di una congiuntura inflazionistica, a drastica diminuzione delle rimesse degli emigranti contribuiva sensibilmente a peggiorare la bilancia dei pagamenti della quale aveva sempre rappresentato una voce importante. E, indirettamente, concorreva a mettere in pericolo tutta la politica economica e con essa la credibilità del regime, che nella solidità della lira aveva identificato il proprio prestigio, a livello sia nazionale che internazionale.

In ogni caso, il Johnson Act chiudeva per sempre la fase storica della grande emigrazione italiana ed occorreva trovare al più presto soluzioni alternative al divario fra popolazione e risorse.

Alla luce della situazione economica e politica italiana in quel periodo, tre erano le strade possibili:

1. uno sfruttamento sistematico del territorio per la valorizzazione di tutte le risorse agricole e minerarie;

2. la ricerca di nuovi Paesi di immigrazione;

3. un programma per la colonizzazione di nuove terre.

4. Operazioni di bonifica delle paludi Pontine, Mussolini si occupò in modo attento di questa esigenza.

La prima strada fu almeno formalmente tentata. Limiti oggettivi si opponevano tuttavia, oltre che per le naturali caratteristiche geo-morfologiche del Paese, per la carenza di capitali.

******************************************************Note didascaliche delle foto allegate:

Mussolini nel 1926, fotografato mentre arringa gli abitanti di Aprilia, nell'Agro Pontino, durante quella che fu definita la "battaglia del grano".
Mussolini cercò di incentivare la coltivazione del grano, che risultava insufficiente per il fabbisogno del Paese.

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Bersaglieri entrano in pompa magna a Macallé nel 1936.


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