ZYGMUNT BAUMAN, <i>Homo consumens… </i>

Radici & Civiltà

SILVESTRI GIOVANNI SILVESTRI GIOVANNI Pubblicato il 07/11/2007
ZYGMUNT BAUMAN, <i><b>Homo consumens… </b></i>

ZYGMUNT BAUMAN, Homo consumens…

ZYGMUNT BAUMAN, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi.

Riferimenti editoriali: Edizioni Erickson, Trento 2007, pp.112, cm 15x21. ISBN: 978-88-6137-034-0. Prezzo: € 10,00

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Il volume, che raccoglie saggi scritti in occasione di conferenze tenute dall’autore, affronta la complessa problematica dell’uomo consumatore del nostro tempo. Con l’acume che gli è consueto, Bauman scandaglia l’animo dell’uomo contemporaneo, cercando di cogliere le trame latenti e inconsce, individuali e soprattutto collettive, che muovono ormai e delineano la configurazione dell’uomo «consumens», dell’uomo cioè che, non vivendo più per soddisfare le sue esigenze fondamentali o di sopravvivenza, si fa prono ad esigenze di consumo fine a se stesso, autogratificante e alienante nello stesso tempo, liberante quanto illusorio, irresistibile e inconsulto insieme.

Ciò che è cambiato non è tanto la superficie ma lo stesso modello antropologico, che è passato, secondo Bauman, dalla dominante della «produzione» alla dominante del «consumo», ovvero ad una «ricerca ossessiva e compulsiva, attraverso i beni di consumo, di un continuo aggiornamento (quasi una rigenerazione) dell'identità, di nuove nascite, di nuovi inizi».

Tale trasformazione antropologica che affida al «consumo» promesse di vita nuova e sogni di rigenerazione impone ovviamente una fuga incessante in avanti, con esiti permanentemente illusori; crea identità sempre in fieri, fluttuanti e sempre autonegantesi, puntuali a «mode» assunte come «necessità» sempre provvisorie. Si svela in fondo solo un agire come fuga dal proprio sé e come rimedio vacuo all’angoscia esistenziale; si svela ancora il paradosso della certezza liquida cui s’aggrappa l’uomo consumatore: ovvero la dimensione solo finita dell’esistenza umana e il completo oblìo di ogni dimensione «altra» della vita. Basata «sull'eccesso, sullo spreco e [...] sull'inganno» l'attuale economia ha reso «la strada tra il negozio e il secchio della spazzatura … sempre più breve e veloce». Così il «modello del consumatore» diventa sempre più modello antropologico globale, modello di vita e di filosofia implicita. Si installa nella coscienza una nuova percezione ed esperienza del tempo: tempo da conquistare, vita da consumare. Si esperisce un perenne stato d’emergenza e di urgenza che, se solleva illusoriamente, richiede un’accumulazione di energia che costringe a rannicchiarsi solo sul presente e a lasciarsi tiranneggiare dal nuovo Procuste: «è illegittimo sentirsi soddisfatti. Per una società che vede nella customer satisfaction la motivazione di fondo e l’obiettivo a cui tendere, l’idea stessa di un consumatore soddisfatto non ha nulla né di una motivazione né di uno scopo: si tratta semmai della più terribile delle minacce».

Questa tirannia dell’istante, tipico della modernità liquida, si mimetizza in forme paradossali, producendo nuova e insospettata sofferenza: ovvero una sovrabbondanza di possibilità che, se si lascia alle spalle gli eccessi di divieti e la nevrosi da senso di colpa tipici del passato, crea tuttavia un senso di inadeguatezza permanente, cittadinanze dubbie e labili, identità sofferenti e sempre incompiute. Trasformati ormai in un sciame inquieto di consumatori, gli uomini vivono urgenze che non hanno più significato e storia, traguardi illusori senza passato e senza futuro.

Una nuova disperazione, quella che nasce dall’imperativo «compralo, godilo, buttalo via», sostituisce quella del «lavora, consuma, crepa» dei vecchi cortei operai. Se, poi, «i bisogni non devono mai avere fine» e ad essi è appesa la continua ricreazione della propria identità, il nuovo modello antropologico impone nuove strategie di sopravvivenza. Ci si dovrà soprattutto difendere da quelle divoranti e indesiderate informazioni che nutrono la moderna cultura liquida, che sostituiscono l’imparare con il dimenticare, che fanno viaggiare in direzioni opposte politica reale e politica virtuale, che annullano ogni differenza tra realtà e apparenza.

La trasformazione degli uomini da produttori in «inquieto sciame di consumatori» archivia anche l'homo politicus; fenomeno ben evidenziato, da una parte, dalla cinica noncuranza per «le procedure democratiche» e, dall’altra, dalla inquietante «evaporazione» del potere politico, del tutto adagiato a ragioni di mercato. La naturalizzazione delle crescenti e inique ingiustizie sociali, pensate del tutto logiche e funzionali al benessere dei pochi, ne è la fatale conseguenza. Appartenere come membri attivi alla società del consumo significa ora rispondere positivamente alle pulsioni deterministiche del mercato. Se minaccia suprema è la recessione, sottrarsi al dogma della razionalità economica esigente un consumo fine a se stesso, significa passare per conservatori timorosi del nuovo.

Se il mal-essere non ha più significato senza il ben-essere, siamo ormai in presenza di una schizofrenia antropologica che fatalmente si traduce in mixofobia. I diversi, gli stranieri, rendono paranoica la società attuale e riducono le città a discariche dove si accumulano i problemi dell'economia globale. Mentre poi le rappresentazioni mediatiche fanno dell'esclusione e della povertà «un suicidio e non come un'esecuzione sociale», prosperano risentimenti verso lo straniero, mentre nuove politiche segregazioniste mandano in frantumi diritti e giustizia. La mixofobia spinge «verso isole d’identità e di somiglianza, sparse nel gran mare della varietà e della differenza» ma segna la tragica «ritirata, non solo dall’alterità che c’è là fuori ma anche dall’impegno nella viva ma turbolenta, corroborante ma scomoda, interazione qui dentro. L’attrattiva di una comunità di eguali è quella di una polizza d’assicurazione contro i rischi di cui è piena la vita quotidiana in un mondo a più voci».

Se, poi, attorno alle isole agiate, naufraga la marea dei poveri, non ha alcuna importanza «I consumatori sono gli onesti membri della società, non chiedono né si aspettano nulla dai poveri. I poveri sono del tutto inutili e nessuno ha bisogno di loro e poiché i poveri sono indesiderati e indesiderabili, possono essere abbandonati senza rimorsi». Colpevoli d’esistere, non hanno valore neanche come consumatori; non ci si concede neppure al pensiero di una provvisoria anomalia, come pure avveniva per la disoccupazione una volta. «Consumatori avariati», i poveri sono semplicemente immondizia, «classe al di fuori delle classi; categoria mantenuta permanentemente off limits dal sistema sociale senza la cui esistenza tutti gli altri starebbero meglio, più comodi che adesso». Insomma, secondo Bauman, una contagiosa cecità collettiva porta all’attualizzazione drammatica della risposta di Caino a Dio: “sono forse io il custode di mio fratello?”. Siamo quindi al «Welfare assediato», e alla ironica crisi delle professioni d'aiuto e dei servizi sociali.

Si saprà rispondere alle opposte insidie, ai ricatti e alle delimitazioni del nuovo complesso quadro di riferimento? Fuori da ogni ingenuo moralismo - perfino il «consumo etico» può essere frutto di cattiva coscienza facendosi forma impolitica di «auto-terapia» - Bauman richiama, non senza una vena di pessimismo, a una risoluta responsabilità etica, cui però non è data alcuna garanzia di riuscita né alcun salvagente di certezze assolute.


Giovanni Silvestri


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