Mio nonno e le sue mule

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SPEDALE MARIO SPEDALE MARIO Pubblicato il 31/08/2008
<b>Mio nonno e le sue mule</b>

Mio nonno e le sue mule

Si chiamava Mercurio come suo nonno, ma il suo nome non gli piaceva perché in paese lo chiamavano “Marcuoriu” e così fece in modo che a me esso non venisse dato, infatti mi chiamarono Mario.

Mio nonno, contadino analfabeta, era nato ad Alia nel 1881 e la sua morte giunse quasi all’improvviso all’età di 77 anni, quasi alla fine degli anni ‘50, quando io ne avevo circa 11.

Era un giorno d’inverno, ad Alia faceva molto freddo, pioveva e nei campi c’era poco da fare.
Così mio nonno, era rimasto a casa ad aiutare le donne, mia zia e mia nonna, che proprio quel giorno dovevano fare le pulizie straordinarie.

In quel tempo, in paese non tutti avevano l’acqua in casa ed ogni quartiere aveva la sua fontanella, luogo di incontro e di aggregazione delle donne, alle quali era usanza assegnare il compito di attingere l’acqua alla fontanella.

Quel giorno, il compito di farlo fu assegnato a mio nonno.
La fontanella, con la fonte in pietra scavata, si trovava all’angolo tra la Via Roma e la Via Gorizia, di fronte la chiesa di Santa Rosalia.
Da casa mia, attraverso i vetri della porta, vedevo mio nonno attraversare più volte la strada, dalla fontanella a casa sua, curvo sotto il peso della “ ’nzira “ (brocca di terracotta) piena d’acqua.
A fine giornata, mio nonno avvertì un forte malessere, “la furtura si l’avìa mangiatu” (il vento ed il gelo gli erano stati fatali).

Si era messo a letto dolorante, in quel letto grandissimo ed altissimo, con i materassi gonfi e pieni di paglia lunga dal caratteristico odore.
La stanza da letto era grande, l’unica di quel piano, con il pavimento di tavole con tante fessure da lasciare intravedere il piano sottostante formato da un’unica stanza.
In quell’unica stanza al piano terra, vi erano i servizi ed in particolare la grande cucina a legna con annesso forno, orgoglio di mia nonna che era sempre lì a lustrare i ferri ed i mattoni di terracotta dipinti a mano.

Per la pentola di rame (la quarara di ramu), mia nonna aveva una vera passione, la lucidava ogni giorno con limone, sabbia ed olio di gomito, anche le posate subivano lo stesso trattamento, perché in quel periodo erano di rame o di alluminio od al massimo di latta laccata, l’acciaio inossidabile era quasi sconosciuto soprattutto nella posateria e per quei paesi di montagna ad economia agricola.

Il giorno dopo, mio nonno si aggravò, la febbre era sempre alta e l’apparente influenza preoccupava mia nonna.

Era uso in quel tempo, che all’ammalato, qualunque malattia avesse, venisse cucinata una gallina, la più grassa, in modo da ottenere un brodo ricco e nutriente.
Si tirava, quindi, il collo alla povera gallina, che poco prima razzolava davanti casa, si spennava , si passava alla fiamma per bruciare le piume più piccole ed uccidere eventuali parassiti (i cosiddetti puddizzuna) e dopo averla aperta e d’averle tolto le interiora, veniva lavata e poi messa in pentola.
Anche per mio nonno fu messa in pentola una bella gallina grassa.
Le interiora furono date a Gemma, la cagna di mio nonno, che finito il pranzo inatteso, perché di solito mangiava pane duro immerso in acqua, si mise con il sedere per terra, grattandoselo e trascinandosi con le zampe anteriori per tutta la stanza del piano terra.

Mia zia metteva legna sotto la pentola e dopo aver acceso il fuoco, soffiava con la bocca dentro il fornello fino a far sprigionare la fiamma da quella legna che prima aveva prodotto tanto di quel fumo da far lacrimare gli occhi perfino alla cagna..
La fiamma, finalmente prevalendo sul fumo, lambiva la pentola.
La gallina incominciò a cuocere, mentre mio nonno, al piano di sopra, invaso dal fumo, ch’era passato attraverso le fessure delle tavole del pavimento, soffriva ancora di più.
La vecchia pentola di alluminio aveva il coperchio senza manico: si era staccato dall’uso e dal tempo, lasciando due buchi da dove fuoriusciva il vapore e l’odore di pollo che continuava a cuocere.

Gemma che era una cagna puzzolente come un cane (!), mi leccava ogni tanto le mie gambe esili che fuoriuscivano dai pantaloncini corti e guardava quella pentola, speranzosa di assaggiare anch’essa qualche pezzo di pollo, pur non avendone di bisogno perché godeva di ottima salute.

Intanto io, incominciavo ad annoiarmi, mia nonna e mia zia erano al piano di sopra ad accudire mio nonno malato, la legna bruciava lentamente, la pentola bolliva, Gemma si era accucciata in un angolo della stanza e si udiva solo il sibilo del vapore che usciva dai fori del coperchio della pentola.

Attaccato ad un chiodo, sotto l’immagine della Madonna delle Grazie, un piccolo termometro segnava la temperatura della stanza.
Quel tubicino di vetro appiccicato ad una piastra gialla di legno, all’interno del quale c’era un liquido di colore argenteo, attirò la mia attenzione.
Provai a toccare quel coso e vidi che quel liquido del tubicino, si alzava e poi si abbassava.
Capii subito che ad alterare la lunghezza di quella colonnina argentata era il calore delle mie mani e quindi qualunque fonte di calore potesse influenzare quello strumento.

Approfittando dell’assenza di mia nonna e di mia zia, tanto Gemma non avrebbe raccontato niente a nessuno, staccai dalla parete quello strumento, che poi seppi che si chiamava termometro, e l’accostai allo spruzzo di vapore che fuoriusciva dai fori del coperchio senza manico.
La colonna di liquido argentato si allungò ancora, raggiunse il tetto massimo ed infine ruppe il contenitore di cristallo versandosi sul coperchio e scivolando subito sul bordo rialzato del coperchio stesso.
Ed allora, cosa fare? Quello che sembrava liquido si trasformò in tante piccole palline che quanto più cercavo di afferrare, tanto più diventavano piccole ed imprendibili .
La paura che scendesse mia zia mi faceva gelare il sangue nelle vene, infine presi quello strumento privo di quel liquido e lo appesi al suo posto, ma non era ancora finita perché le palline argentate erano ancora al bordo del coperchio e si muovevano al ritmo di quest’ultimo spinto dal vapore prodotto dalla pentola in ebollizione.
A quel punto, per paura che mia zia potesse scendere da un momento all’altro, presi un mestolo di legno, sollevai il coperchio, fino a farlo cadere capovolto sul piano della cucina e vidi che le palline argentee scomparivano tra le fessure dei mattoni di terra cotta, la dove la calce si era staccata.
Ero salvo, pensando, a modo mio, che ogni cosa fosse ritornata a suo posto.

All’improvviso un grido ruppe quel silenzio, era quello di mia nonna a cui, subito dopo, seguì il pianto di mia zia; pensai, in un primo momento, di essere stato scoperto, ma non fu così.
Mio nonno era morto, proprio nel momento in cui le palline argentee si nascondevano tra le fessure dei mattoni della cucina.
Dopo qualche tempo, seppi a scuola che quel liquido di colore argento si chiamava Mercurio, detto anche argento vivo, derivante dalla parola latina hydrargurum, parola composta dai termini corrispondenti ad “acqua e argento”. L’elemento chimico prese quindi il nome dal dio romano Mercurio per via della sua scorrevolezza e mobilità; seppi anche che quello strumento si chiamava termometro.
Ricordai mio nonno Mercurio e mi sentii subito in colpa, avevo forse giocato con la sua vita.

La gallina intanto, tra un pianto e l’altro terminava la sua cottura e la solita vicina di casa, la sera stessa, la serviva per cena ai parenti del defunto, me compreso. Per noi la vita continuava.


I funerali di mio nonno si svolsero il giorno dopo la sua morte.
Io che ero il più piccolo della famiglia, rimasi in casa a fare compagnia alla nonna che era malata di cuore ed ogni altra fatica poteva esserle fatale.
Il corteo che accompagnava mio nonno portato a spalla da amici e parenti, doveva passare, da un momento all’altro, dalla via che porta al cimitero che incrociava la strada di mia nonna, verso monte Ilice.
Mia nonna, avvolta nel suo scialle nero, tutta vestita di nero, ricurva, piangeva in silenzio quasi dimenticata in un angolo della stanza al piano terra.
In attesa che passasse il funerale, seduto sul marciapiede, io giocherellavo con la cagna Gemma davanti porta di casa. Finalmente al passaggio del corteo, lo scalpitìo di muli che si udì dalla stalla di fronte, che era quella di mio nonno, cessò solo in sua lontananza.
A funerale concluso, i parenti e gli amici, avendo lasciato il nonno al cimitero nella camera mortuaria in attesa di essere seppellito, ritornarono a casa di mia nonna.

Era usanza in quel tempo, che i morti, prima di essere seppelliti definitivamente, restassero nella camera mortuaria all’interno della cassa, con il coperchio aperto, per almeno ventiquattro ore.

Uomini e donne del corteo, sfilarono davanti i parenti del defunto, davanti casa di nonna, baciandoli e facendo loro le condoglianze.
Quando tutti furono andati via, noi familiari rientrammo in casa e visto che faceva molto freddo, ci mettemmo attorno al braciere in silenzio, seguendo ognuno i propri pensieri.

Intanto nel triste silenzio di quel pomeriggio, qualcuno si ricordò che le mule del nonno non erano state abbeverate.
Dato che gli adulti, non potevano mostrarsi in pubblico subito dopo i funerali, il compito di condurre gli animali all’abbeveratoio, che si trovava vicino il paese, toccò ai nipoti più piccoli, a me ed a mio cugino poco più grande di me.

Contenti di quell’incarico, dimenticammo la morte di mio nonno e ci recammo alla stalla.
Le mule, che erano legate agli anelli della mangiatoia, erano due, la più vecchia e la “ putra “, chiamata così perché giovane rispetto all’altra.
Dopo averle slegate, condotte fuori della stalla ed aver loro messo il cosiddetto “capizzuni“, vi salimmo in groppa con un balzo, spiccato dal muretto vicino casa di mia nonna, cavalcandoli a pelo, cioè senza sella.

Mio cugino che era più grande di me ed era più bravo a cavalcare, aveva scelto la mula più giovane, mentre a me toccò la vecchia perché più lenta e mansueta.
Io e mio cugino spronammo le mule che subito si misero a trottare impazienti di raggiungere l’abbeveratoio che si trovava sulla strada del cimitero, al di là di esso, venendo dal paese.
Ad un tratto però, poco prima del cimitero si fermarono di colpo e malgrado noi continuassimo a spronarle, colpendole con l’estremità della corda delle redini, esse non vollero più andare avanti, anzi, subito dopo, ci disarcionarono, tornando indietro verso la stalla, seguite a piedi da me e mio cugino.
Le mule, in prossimità del cimitero, sicuramente avevano avvertito la presenza di mio nonno e forse, a modo loro, avevano voluto mostrare il proprio dolore.


Mario Spedale


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