‘Na mustarda ni la manica…

Radici & Civiltà

DIDACUS DIDACUS Pubblicato il 22/11/2010
<b>‘Na mustarda ni la manica…</b>

‘Na mustarda ni la manica…

La nonna materna, a tiempu di ficurini, ci riuniva di buon mattino ni' la casa morta, fresca d'estate e calda d'inverno, che, per quanto buia e sotterranea fosse, era rischiarata, attraverso un catarrattu, da un lucernario, praticato nel tetto solare di un camerino soprastante, certamente da un mastro di arte saracena, che aveva, così, dato luce alla casa morta (e con essa un soffio di vita), al camerino e all'attigua camera da letto, attraverso le fessure verticali della porta che le ingiurie del tempo e la vivacità di noi ragazzi avevano provocato...

Era in siffatto camerino che, ancor in tempi di mia memoria, c'era un signorino, cu' li manu a li scianchi... e noi, nei nostri lettini, nelle gelide alborate invernali, speravamo ardentemente di non vedere la luce filtrare per le connessure della porta e di sentire incrinato il suono di la campana dl la Matrici chi lu zi' Minicu, cadenti cielo, sonava a lu Patrinostru o pi la prima missa, o chiddu di li du' campani di lu roggiu, (la grannuzza e la nicaredda), segno sicuro che c'era la neve e noi potevamo rimanere al calduccio del letto, e se ci fossimo alzati non era per andare a scuola ma per vedere, attraverso la finestra della stanza da pranzo, il cortile Genco, colmo di neve immacolata, se non fosse per qualche insonne vicino che già spalava, e il candore della via Diaz, segnato già dai passi di uomini e bestie che la neve non fermava...

Proprio sutta lu catarrattu di la casa morta, ora morta davvero, quando l'estate era matura, agghiurnava 'na 'mposta di ficurini, proveniente, cu' carteddi e panàra, di L'api, di Li tempi o di Raciura, intorno a cui facevamo girotondo, larga corona di nipoti, per un non più usato breakfast, la nonna ad armeggiare con un vecchio coltello da cucina, per rendere inerme lo spinoso frutto e noi, a turno, a delibare il nostro ficodindia, dolce di salutare fruttosio; australi, muscarieddu o sanguigno che fosse; companatico di fidduna di pani di casa, per saziarci meglio e pi' non 'ntuppari (ci diceva la nonna), fino a quando non si fosse esaurita la 'mposta, che si rinnovava miracolosamente il mattino successivo... "Nonna nonna, na ficurinia sanguigna a mia "No, a tia ti tocca muscaredda, chista sanguigna è pi' to' suoru... ".

La casa morta risonava di parole del lessico opuntiano o allusive della spinosa questio, gridate, contro il galateo, a bocca piena; di lazzi e motti, e la nonna materna, anche lei austera e dolce, come un'opunzia, disarmava, moderava e amministrava in modo equo, ricorrendo solo di rado a lu sarmientu coi più riluttanti dei nipoti, maestra di lingua e affabulatrice: "Pi' Sant'Antoniu (era il suo santo), 13 giugno, si scuòzzulanu li ficurini, pi' San Giovanni, 26 giugno, ci cari la grazia a li vavalucieddi... Quando l'estate, al culmine dell'età, dava segni di malessere, e l'autunno, un po' becchino, la sbirciava con intento. la nonna, la zia, una vicina di casa, un'ospite palermitana, cominciavano a mondare una buona partita di fichidindia, che mettevano a cuocere ni la quarara granai, bistrattandoli con una robusta paletta di legno.

A un certo punto si levava la poltiglia dal fuoco vivo di la furnacella e, dopo averla passata al setaccio, vi si rimetteva, continuando la cottura, arriminannu e aggiungendo, man mano, della farina, a sfilucchiari, uso pitirri, finchè non avesse acquistato la densità di lu pitirri... Allora si toglieva definitivamente, dal fuoco e si versava sul marmo, dove si poteva modellare a piacimento, a freddo, incidendo col coltello secondo le regole della geometria solida, o riempiendone, a caldo, formette, che davano questa o quella figura alle mostarde.

I piccoli solidi e le creaturine così ricavati dalla materia informe, diversi tra loro, ma tutti dello stesso spessore, si disponevano sulle tavole di l'astratto per l'asciugatura al sole, che dava loro un'accresciuta consistenza gommosa, la dolcezza dei sapori autunnali, il colore e la trasparenza dell'onice. Intanto, na lu stipu, dintra li burnii, le ricordo ancora le mostarde, mentre si velavano di zucchero, come nevischio sui personaggi del presepe, qualcuna somigliante a lu Bamminieddu 'ni la culla, e mi dicevano che il Natale era vicino...

Una mostarda, poi, poteva essere la posta per un ambo alla tombola tra vicini di casa, la sira di la Vecchia e..., al mattino, te la potevi ritrovare, in forma di Gesù Bambino, 'ni la manica, rigonfia e legata, come sacco, del tuo cappottino rosso, bene in vista dinanzi al tuo lettino, quando avresti riaperto gli occhi, sgranandoli, che la Vecchia Strina, colà, aveva sistemato, a guisa di spaventapasseri, per tenere lontano dai sogni di fanciullo un po' spaurito il volo breve di un barbagianni, dal piumaggío morbido, come gomitolo di lana Angora, o quello, a zig zag, di un pipistrello, dalle ali nude e fredde; che, irragionevolmente e accidentalmente, addirittura, s'mpiglia nni la cuttunina…”Taddarita, vieni cca, ca ti dugnu a to' papà; to' papà è all'Acqualonga; tira, tira, ca t'allonga…”


Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale “LA VOCE” di Alia, nr. 4/95, pag.3


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