FORSE UN GIORNO - I^ Parte -

Radici & Civiltà

LO BLUNDO CLAUDIA LO BLUNDO CLAUDIA Pubblicato il 14/02/2006
<b>FORSE UN GIORNO</b>   - I^ Parte -

FORSE UN GIORNO - I^ Parte -




Forse, un giorno, ritornerò!
Quel giorno vorrei avere ancora uno spirito da bambina!
I miei capelli, ormai bianchi, saranno ricoperti da un velo di tintura, pietoso tentativo di nascondere le ferite della mia vita agli altrui sguardi curiosi.

Sul mio volto le sottili pieghe del tempo dimostreranno che la vita è trascorsa con le sue lotte e le sue gioie: chissà se avrò più sofferto o più gioito? O, forse, le sottili pieghe sul volto non riusciranno a rivelare nulla perché saranno troppo occupate a combattere una lotta estenuante contro mani sapienti che con costose creme tenteranno di colmarle, mentre, in continuazione, vogliono segnare il mio volto.
Forse, un giorno ritornerò!

Prima che la mia volontà ceda il passo alla pigrizia, al dolce far niente in cui si crede di dover consumare l’ultimo periodo della vita, in quell’assenza di azione, in cui ineluttabilmente, affiorano ricordi antichi e nuovi. E quando i ricordi fanno male al cuore, la volontà cede alla pigrizia di un qualunque spettacolo demenziale offerto dalla TV! La TV, unica vera amica che mi ha accompagnata sin dalla mia giovinezza; gli anni, a quel tempo, erano troppo pochi per avere ricordi e la TV, in prospettiva di una lunga vita futura, portava dolci sogni nei quali era piacevole cullarsi: dolce compagna discreta, la TV, silenziosa, si fa per dire, sempre pronta a lasciarsi manipolare, sempre disposta ad assecondare i miei stati d’animo offrendomi la possibilità di scegliere tra oltre cento canali, anche intercontinentali.

Sì, devo tornare, prima che sia troppo tardi, prima che la stanchezza mi colga e mi faccia dire, irrimediabilmente: “Peccato! Avrei potuto!”.

Una volta, i campi, mostravano quasi con orgoglio, i loro colori, i loro profumi. L’aria, sempre tersa, recava alle narici odori lontani che si mescolavano con quelli vicini pur mantenendo ciascuno una distinzione dall’altro.

A quei tempi c’era maestosità nei gesti dei contadini; si alzavano alle prime luci dell’alba e indovinavano l’ora senza dover consultare l’orologio, a loro bastava, semplicemente, osservare il cielo nel suo passaggio dalla notte, scura, al mattino dai tenui colori azzurrini, attraverso il rosso ed il pallido rosa dell’alba.

I contadini avvolgevano un pezzo di pane in un salviettone, riempivano un ‘bummulo’ acqua e ponevano queste cose dentro le ceste lavorate a mano, i cufini già sistemati sulla groppa dell’asino o del mulo o del cavallo: quelle ceste contenevano le vanghe, le sementi, o le piantine da interrare. Poi partivano per una giornata di duro lavoro, unico riparo dal sole o dal vento un fazzolettone legato in testa con quattro nocche.

Si davano una voce tra loro quando, dopo aver trascorso un tratto di strada insieme, si separavano per raggiungere ciascuno il proprio fazzoletto di terra che conservava, nel nome, la rispettosa magia dell’antico feudo del quale aveva fatto parte e che era appartenuto al tal principe o a quell’altro barone e che, leggi più giuste o il frutto di pessima amministrazione, avevano ormai suddiviso fra tanti contadini, numerosi piccoli proprietari che avevano preso il posto di quell’unico padrone finito chissà dove, chissà come: chi ricco, chi povero, chi in America, chi al Nord.

A sera, i contadini, stanchi ed affamati, tornavano nelle loro modeste case dove venivano avvolti dall’odore caldo della legna che bruciava e cuoceva la pasta-artigianale'>pasta che le loro mogli avevano lavorato durante il giorno e che era rimasta ad asciugare su di un candido telo, ormai impregnato di farina.

Le loro ceste, a volte, erano colme di frutta o verdura, e se erano vuote, nel cuore del contadino paziente c’era la speranza nel domani.
A chi giungeva dalla città, quello del contadino sembrava un lavoro misterioso: con le sue mani faceva sì che la campagna si coprisse di verde, di giallo di rosso; sugli alberi spuntavano frutti polposi e gustosi, le ampie foglie delle viti nascondevano grappoli neri o dorati e poi, mistero più grande, la magia del vino!
Come mai un contadino ignorante, spesso analfabeta, sapeva tante cose?

La “Contessa” - chissà perché era stata chiamata così - era appartenuta alla mia famiglia da secoli. Quando tentavo di andare a ritroso nel tempo, per scoprire quale parte di storia avessero vissuto i miei avi, mi ritrovavo a Garibaldi, alle guerre di Indipendenza, e ancora più indietro: storie di principi e di amministratori, e la Contessa era sempre lì, orgoglio di chi, volta per volta l’aveva ereditata. Prima era quasi un feudo; in seguito, con il trascorrere degli anni e delle generazioni, era stata sempre più suddivisa tra la vasta parentela e ciascuno ne aveva una fetta. Ma ogni fetta era pur sempre la Contessa!

Ricordare, adesso, la Contessa mi fa venire in mente una bellissima dama, una sorridente signora disposta non solo a mostrarti i suoi tesori, ma anche ad invitarti perché te ne serva.

“Su sveglia, bisogna alzarsi presto per poter arrivare in campagna con il fresco del mattino, prima che il sole sia troppo alto all’orizzonte”.
Sullo stradone che si snodava, come un lungo biscione dalla piazza centrale del paese, le corse tra noi ragazzini facevano echeggiare i rumori dei sandali come piccoli tonfi che fendevano l’aria in un unico suono ritmico con quello degli zoccoli serrati degli animali. Quando eravamo piccoli trovavamo posto dentro le capienti ceste poste addosso agli animali da soma, ma, ormai divenuti grandicelli, potevamo sperare, soltanto, di salire in groppa al mulo od al cavallo per poco tempo, perché le povere bestie, a turno, dovevano portare un po’ tutti.

Gli uomini camminavano dinanzi a tutti o a fianco delle bestie e qualcuno dietro il gruppo delle donne e dei ragazzi, presto stanchi delle loro corse: ciascuno pregustava il piacere per quella giornata da trascorrere, insieme, alla Contessa!

Lasciato lo stradone, sul quale difficilmente in quegli anni transitavano delle vetture, ci inoltravamo per un lungo viottolo fiancheggiato da alte siepi di grosse e turgide more: il loro gusto dolce rinfrescava la bocca e ciascuno tentava di riempire un fazzolettino con quei piccoli frutti per poterne mangiare ancora quando avremmo lasciato quel viottolo.

Adesso i rovi di more erano alle nostre spalle e noi ci trovavamo su ampi campi dove sino a qualche mese prima i chicchi di grano avevano ondeggiato cantando, alle orecchie del contadino, una nenia di speranza: l’inverno era trascorso bene, il duro lavoro aveva dato i suoi frutti e quel grano avrebbe sfamato la sua famiglia.

Dopo la mietitura del grano, su quei campi era rimasta la stoppia, la ristuccia che, in attesa di essere bruciata per lasciare la campagna libera per la semina autunnale, serviva come luogo di riposo per quelle lumachine bianche che ancora oggi si vendono, già cotte, durante le feste di paese.

Incuranti dei graffi che la ristuccia procurava alle gambe nude, ci lanciavamo tutti a caccia delle lumachine piccole, ma gustose, che sarebbero finite in pentola, ed allora nessuno avvertiva la stanchezza.

“Ma quando arriviamo?”, piagnucolava qualcuno dei più piccoli, stanco di sentirsi graffiare le gambette.
“Ancora un po’, dopo quella curva, ecco la casa, più avanti c’è la nostra campagna: la Contessa!”.

Raccolte le nostre ultime forze, facevamo a gara per giungere primi alla sorgente d’acqua e bere con il palmo della mano, sempre meravigliati della presenza dei lucenti girini che guizzavano lontano dalle nostre piccole dita. Intanto gli adulti ci chiamavano da sotto i rami della grande pianta di fico dalla quale colavano gocce di resina. Andavamo anche noi, come i grandi, in cerca del frutto più maturo, più succoso.

“Il più buono - ci dicevano le mamme - è quello semiaperto, che lascia intravedere, come una corolla, i suoi fiorellini interni, rossi!”.

Avevamo tutti la sensazione che mai frutto fosse stato più delizioso, gustato nella pace di quel silenzio che non era causato soltanto dal nostro masticare o dalla stanchezza che ci induceva a sederci a terra o su una pietra, ma era il silenzio della natura che si risvegliava al mattino: chissà che ora sarà stata? Il sole era ancora basso, i primi grilli, nella loro livrea da professori di orchestra, riempivano l’aria del loro stridìo, gli uccelli iniziavano a volare tra i rami, e facevano la loro toeletta mattutina mentre volteggiavano pigri. La giornata sarebbe stata lunga e calda anche per loro che, probabilmente, tentavano di far tesoro delle energie raccolte durante la notte fresca.

Gli uomini, padroni e contadini, abituati alle fatiche, lasciavano donne e ragazzini e si sparpagliavano per la campagna a controllare l’uva, le pesche mature, gli alberi delle pere che sarebbero state gustate a Natale, raccoglievano qualche mandorla già matura e la portavano, come un trofeo, alle donne.

La sorgente dell’acqua si trovava su un ampio pianoro che poi si innalzava presentando la campagna coltivata a terrazza. Sul pianoro, oltre la sorgente e la pianta di fico, c’era un grande e vecchio albero di noci i cui rami sembravano protendersi all’infinito, le sue foglie erano talmente fitte da non lasciar filtrare il sole ed i suoi frutti, dal mallo acidulo, racchiudevano nel loro interno il dolce frutto dal gusto di latte cremoso.

Mentre le donne si davano da fare per preparare il pranzo, noi ragazzi andavamo a caccia di grilli, trofei meravigliosi, dalle ali dipinte di verde o arancione, che racchiudevamo nelle nostre scatolette, vecchie tabacchiere, e che erano destinati a rallegrarci, quasi fossero animali domestici, quando a casa li avremmo legati, per una zampetta, alle piante di nastrino poste sui balconi. Ho appreso da loro la dura lezione che, a volte, è preferibile sacrificare qualcosa di sé pur di ottenere la libertà e l’ho appreso quando, andando a curiosare tra le foglie del nastrino, una volta non trovai più il grillo, ma soltanto la sua zampetta.

Correndo e saltando giungevamo in prossimità della grande casa, una di quelle antiche case dove una volta le famiglie trascorrevamo il periodo estivo al riparo dalla polvere e dalla calura del paese. Non ci avvicinavamo mai troppo all’aia della casa, quasi timorosi che antichi fantasmi facessero cigolare i cardini arrugginiti di quelle porte velate da spesse ragnatele.

Mia madre mi raccontava che, sino a quando lei era stata piccola, durante il periodo estivo, quella casa era stata abitata dai suoi nonni e dalle zie; io tentavo di andare oltre quelle poche parole che avrei voluto fossero il preludio di racconti fantastici su gente appartenuta ad un’altra epoca, ad una vita tanto diversa dalla mia, una vita calma, senza le corse frenetiche che, in particolare oggi, stravolgono le nostre giornate.

Così mi costruivo una storia dove ogni gesto, ogni atto risultava incantevole: raccogliere i frutti direttamente dagli alberi, assaporarli così come anche noi facevamo, e poi… preparare dolci e conserve per l’inverno ed al tempo della raccolta delle mandorle metterne a seccare il mallo esterno, poi schiacciarle e gustarle ancora fresche. Ed ancora, sentirsi avvolgere dall’aria nitida, dal cielo azzurro, aprire le finestre e stendere il bucato che diventa candido al sole: una serena allegria condisce le azioni di tutti i giorni, mentre il pomeriggio trascorre ricamando e raccontando storie appartenute al passato.

Non mi rendevo conto che quel mio sogno puerile, quel mio fantasticare, era il desiderio di ritrovare, sul volto degli adulti che mi circondavano, quella vita spensierata che era appartenuta alla loro fanciullezza: non avrei potuto scorgere nulla di tutto questo perché la guerra aveva cambiato i connotati alla cose, aveva alterato il normale andare della vita, aveva spazzato via tante vite umane, aveva fatto prendere coscienza, a tutti loro, che si era chiuso un periodo.

Loro sapevano che quel periodo non sarebbe più tornato, io no!
Io avrei voluto ricalcare i passi dei miei avi, osservare la loro vita. E pensare che non sono mai entrata in quella casa!

In verità allora non ero molto curiosa ed ogni estate pensavo che avrei potuto visitarla l’anno successivo; sì, l’anno dopo avrei salito la scala che portava sino all’ultimo piano, mi sarei affacciata ad una finestra e, come le mie antenate, avrei fatto spaziare lo sguardo per la campagna. Oh sì, mi sarebbe piaciuto fare tutto questo, ma avrei dovuto aver pazienza ancora per un anno perché, anche se non riuscivo a comprendere come ciò potesse accadere, avevo la sensazione che nessuno degli adulti desiderasse rientrare in quella casa ed infatti, stranamente, nessuno di loro ricordava mai di farsi dare la chiave di ingresso dalla parente ultima padrona.

Perduto ogni interesse per la casa, noi ragazzi rivolgevamo altrove la nostra attenzione: salivamo la piccola altura a terrazza dove le piante di pomodori e melanzane offrivano i loro frutti, coglievamo i chicchi maturi dalle viti e poi giungevamo lassù dove ci sentivamo padroni di un vasto spazio dove poter giocare a rimpiattino, liberi, protetti dagli alberi di mandorlo e di ulivo, mentre qualcuno, più coraggioso, si nascondeva dentro il fienile che serviva come luogo di riposo per i contadini che, a volte, rimanevano la notte in campagna.

Un anno anche io e la mia famiglia rimanemmo a dormire alla Contessa: la paura che mi incuteva quel profondo silenzio, talvolta lacerato da un lieve stormire delle foglie, era placato dalla magnifica visione delle stelle che sembravano poggiate in cielo per farsi ammirare nella loro strana disposizione geometrica, mentre la luna, non ancora violata dall’uomo, riusciva a trasmettere serenità e conforto.

Qualcuno, incurante dell’involucro spinoso, riusciva a raccogliere un ficodindia, ma poi si doveva ricorrere all’aiuto del nonno o del padre oppure dello zio, che con il coltellino ne aprisse la buccia per farci gustare quel frutto colorato pieno di curiosi semini. Quando ciascuno di noi desiderava uno di quei frutti, inevitabilmente si finiva a pianti e tentativi di scapaccioni da parte degli adulti… che insomma, avevano da lavorare!

Non ricordo più se la sera, nel mio lettino, ripensavo a quel che avevo vissuto quel giorno trascorso in campagna.
Forse no, non ce n’era motivo: anche se l’estate terminava sempre troppo presto e si doveva rientrare in città, restava l’attesa nel domani, nell’anno successivo che ci avrebbe fatto ritrovare ancora tutti insieme ed allora, finalmente, avremmo visitato l’antica casa, avremmo portato i girini in casa, per vederli trasformati in rana o, più coraggiosi, avremmo lasciato gli adulti e ci saremmo inoltrati nelle altre campagne, alla scoperta di ciò che c’era al di là dei cumuli di pietra e forse gli uomini avrebbero lasciato che, da soli, ci costruissimo i dondoli tra i due rami degli alberi di mandorlo.

Claudia Lo Blundo


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