Il nuovo italiese, lingua del futuro

Intervista a Gianrenzo Clivio, docente di Lingua e Filosofia italiana alla University of Toronto e a Pierluigi Roi, news manager e senior editor di">

Radici & Civiltà

FANTASIA ANTONIO FANTASIA ANTONIO Pubblicato il 11/03/2006
<b>Il nuovo italiese, lingua del futuro</b>

Il nuovo italiese, lingua del futuro


Ricerca effettuata da Antonio Fantasia su: "Corriere.com - Corriere Canadese Online"


Intervista a Gianrenzo Clivio, docente di Lingua e Filosofia italiana alla University of Toronto e a Pierluigi Roi, news manager e senior editor di Omni Tv.

In principio c'era l'italiese dei nostri primi immigrati, che dialettizzavano, o italianizzavano, termini ed espressioni inglesi. "Silingo", per esempio, da ceiling (soffitto); "basamento" (da basement, seminterrato); "trocco" (da truck, camion, che diventava "trocchetto" quando si trattava di un camioncino), "rummo" (da room, con il derivato "rummino" usato per indicare una stanzetta).
"Lingua della sopravvivenza", l'ha definita il prof. Gianrenzo Clivio che ne ha fatto oggetto di un corso alla University of Toronto e che da tempo sta lavorando a un vocabolario di italiese-italiano.


Ora c'è l'italiese delle seconde e terze generazioni di italocanadesi. Lo usano quando hanno difficoltà a rendere chiaramente un'idea in italiano, e allora prendono dall'inglese termini e modi di dire che introducono nel discorso. Tuttavia non li italianizzano come facevano i loro genitori o i loro nonni: quei termini e quei modi di dire sono usati correttamente. Dicono, per esempio, "Arrivederci e take care", l'equivalente italiano di "stammi bene"; oppure "Ho portato la macchina dal car washer", per dire che l'hanno portata al lavaggio; "Non mi funziona il remote control del televisore", e significa che il telecomando è fuori uso.


Qualcuno inserisce addirittura intere frasi inglesi nel contesto di un discorso in italiano. A volte è un vezzo, a volte necessità di farsi capire meglio, e allora viene fuori una strana lingua che è nello stesso momento italiana e inglese e che ha corrette strutture sintattiche e grammaticali: italiane nella parte italiana, inglesi in quella inglese. Le due parlate, insomma, procedono affiancate e si sostengono a vicenda. Il pregio di questa strana lingua, chiamiamola nuovo italiese, sta nel fatto che si fa capire subito.


«Sta accadendo qui, come in tutti i Paesi a forte immigrazione italiana, quello che accade in Italia quando il dialetto va in aiuto dell'italiano», dice Gianrenzo Clivio, che è docente di Linguistica e Filologia italiana alla University of Toronto e autore di numerose pubblicazioni sulla storia e sulla morfologia dei dialetti. «Il termine tecnico è code-switching, cambiamento di codice, il che significa passare disinvoltamente da un codice all'altro, cioè da una lingua all'altra. È un fenomeno che si registra nelle seconde e terze generazioni, ed è un ulteriore passo rispetto all'italiese: perciò è esatto parlare di nuovo italiese. Ma va aggiunto che quel fenomeno interessa soprattutto le comunità italiane all'estero».

Cosa accade nelle altre comunità?
«Accade che in molte di esse già le seconde generazioni parlano solo l'inglese. Prendiamo gli ebrei, per esempio: i figli non parlano più lo yiddish, che è la lingua dei genitori, se non per dire appena qualche parola. Nelle comunità italiane, invece, non è difficile trovare addirittura qualcuno della quarta generazione che comprende l'italiano anche se non lo parla. E allora il nuovo italiese è anche una forma di mantenimento della lingua italiana all'estero».
Perché il fenomeno si registra principalmente nella comunità italiana?


«Perché una parte importante della famiglia, il padre e la madre, generalmente non hanno imparato l'inglese a sufficienza e si sono rivolti in italiano o in dialetto ai figli. Questi sono consapevoli che la lingua imparata a casa non è quella che si parla in Italia, perciò ne utilizzano solo le strutture della cui correttezza sono sicuri e si rivolgono all'inglese, utilizzandone singole parole o intere frasi, per rendere più chiaro il discorso».


Questo per quanto riguarda quei giovani che hanno appreso l'italiano, sia pure dialettizzato, in famiglia. E il code-switching ha una sua spiegazione. Ma il fenomeno è presente anche in quelli che hanno frequentato i corsi scolastici o universitari di italiano. Che spiegazione darne?
«Diverse spiegazioni. Anzitutto, frequentare all'estero i corsi di una lingua non vuol dire impararla perfettamente. La si apprende, diciamo, in laboratorio perché non si ha la possibilità di praticarla nella vita di ogni giorno. Questo significa che quando la si usa ci sono dei vuoti che nel nostro caso vengono colmati dall'inglese. L'altra spiegazione sta nell'esigenza di sottolineare un concetto, anche di fare un certo effetto sull'interlocutore, e ciò riguarda soprattutto quanti parlano un italiano più avanzato di quello che si apprende a scuola o all'università. Infine non va dimenticato che l'inglese sta dilagando...».
Per via dei prestiti linguistici immagino.

«Sì, e perciò l'inglese è entrato in tutte le lingue, italiano incluso. Non si dice più elaboratore elettronico, ma computer; finesettimana è ormai weekend; persino la pausa-pranzo negli uffici e nelle fabbriche è diventata lunch-time».
Ma l'inglese è ormai la lingua della globalizzazione.


«Precisiamo: il cattivo inglese. Oggi, a furia di dare e ricevere prestiti lessicali e grammaticali non è differente dal vetero italiese che parlava una signora che ci aiutava in casa e che un giorno mi disse: 'Professore, non ci sono più le beghe per la respirapolvere'».
Quali margini di sopravvivenza ha l'italiano in un mondo in cui si parla sempre più l'inglese, anche se è un cattivo inglese?


«Mentre molte lingue oggi sono moribonde, il che significa che non vengono più imparate dai bambini, l'italiano è in ottima salute perché può contare su un notevolissimo numero di parlanti e non c'è alcun sintomo di cedimento: questo in Italia. In Canada non credo che abbia possibilità di sopravvivenza come prima lingua perché le nuove generazioni sono sempre più anglofone anche in famiglia. Ma è troppo prezioso, l'italiano, perché sparisca completamente: in Canada, come in molti altri Paesi, sopravviverà come lingua di cultura, e questa specificità non è soggetta a mode».
Il nuovo italiese ha un futuro?


«Sì. Questa nuova lingua, in cui l'italiano e l'inglese si completano a vicenda, rappresenta il futuro immediato della comunità italiana in Canada».
Cosi significa in termini di generazioni "un futuro immediato"?
«Che avrà piena efficacia comunicativa per due o più generazioni. Questo mi sento di asserirlo con certezza».


E poi sparirà?
«No, se gli studiosi la terranno in vita. È una fase molto interessante dell'evoluzione linguistica della nostra comunità e perciò dovrebbe essere analizzata e registrata. Il nuovo italiese, dal punto di vista scientifico, presenta risvolti teorici rilevanti perché sono applicabili anche ad altre lingue e alla dinamica del linguaggio umano nel suo complesso».

Pierluigi Roi, 43 anni, milanese, è news manager e senior editor di Omni Tv (ex Cfmt), di cui dirige i programmi in italiano. Dice: «Quando alla mia stazione televisiva si sono resi conto di quanto il code-switching fosse determinante alla chiarezza della comunicazione, non hanno esitato a introdurne il meccanismo nei notiziari».
In che modo?


«L'idea fu di Dan Iannuzzi fondatore di questa stazione televisiva, oltre che del Corriere Canadese», dice Pierluigi Roi. «E fu Angelo Persichilli, all'epoca responsabile dei notiziari, a metterla in pratica. Il ragionamento era semplice. Se l'uso contemporaneo di italiano e inglese rende più comprensibile un discorso, facciamo la stessa cosa con la notizia: diamola in italiano, ma se il personaggio

intervistato per l'approfondimento si esprime in inglese lasciamogli la sua lingua. L'idea funzionò. Con il tempo è stata perfezionata e adattata alle nuove esigenze e ai nuovi telespettatori, ma il punto di partenza fu quello di dare una informazione comprensibile a tutti».


Concordo che sul piano dell'informazione ciò dà maggiori chiarezza e comprensione, tuttavia la lingua usata non è più l'italiano: il nuovo italiese è corretto, ma è un'altra cosa.
«Io sono pragmatico, e se devo scegliere tra il cattivo italiano e il buon inglese di un personaggio preferisco lasciarlo parlare in inglese. Il mio obiettivo è fare informazione. Quanto al nuovo italiese, potrei anche concordare che è un'altra cosa rispetto all'italiano ma da tempo mi gira per la mente un'idea...».
Quale?


«Il nuovo italiese non è un fenomeno limitato al Canada, ma comune a tutti i Paesi anglofoni a forte presenza italiana. D'accordo? Allora, se è vero che fuori dall'Italia ci sono 60 milioni di italiani, è altrettanto vero che in determinate aree sarà il nuovo italiese ad affiancare l'inglese come lingua veicolare. Non prenderla come una ipotesi improbabile».


L'italiano sta vivendo un momento di grande popolarità all'estero. I motivi li ha spiegati Tullio De Mauro nella presentazione della sua indagine dalla quale risulta che la nostra lingua è tra le cinque più studiate nel mondo. Secondo i dati analizzati da De Mauro, l'italiano non è solo la lingua della grande cultura ma è diventata anche lingua d'uso, che offre opportunità di lavoro e consente l'allargamento dei rapporti sociali. Secondo te, in Canada sono solo queste le motivazioni dell'aumentato interesse all'italiano o ce ne sono altre?

«Queste motivazioni sono lo zoccolo duro dell'aumentato interesse, ma secondo me qui concorrono anche altri fattori, e non secondari. Anzitutto c'è l'ottimo lavoro didattico fatto a livello di università, di scuole superiori e di scuole elementari. I tagli ai fondi nel sistema scolastico, che hanno penalizzato lo studio delle lingue, stanno compromettendo quel lavoro per gli anni futuri, e mi auguro che i politici rinsaviscano, ma in ogni caso il Canada resta il Paese estero dove l'italiano è studiato con maggiore costanza. In questa realtà già recettiva si sono inserite le iniziative degli ultimi cinque anni».
Cosa vuoi dire?


«Che è arrivata Repubblica, per esempio. Lo ritengo un fatto di grande importanza culturale. Che lo stesso Corriere Canadese, lungi dall'esserne solo il veicolo di diffusione, ne è quasi l'interfaccia al di qua dell'oceano perché ha elevato ulteriormente la sua qualità. Che sorgono in continuazione nuove radio in lingua italiana. Che noi stessi abbiamo praticamente raddoppiato le ore di trasmissione in italiano aggiungendovi nuovi spazi per videomusica e attualità. Voglio dire che se il terreno non fosse stato fertile tutto ciò non sarebbe avvenuto. Qui c'era una domanda che è stata soddisfatta. Trovami tu un altro Paese all'estero dove c'è stata una escalation così vertiginosa dell'interesse verso l'italiano e verso l'Italia».
Ma la globalizzazione parla in inglese...


«Io dico che prima o poi bisognerà intendersi sulla globalizzazione. Oggi ci sono quelli che l'adorano e quelli che se potessero la manderebbero al rogo. Secondo me c'è la globalizzazione alla McDonald o della Nestlè, tanto per esemplificare, che va riveduta e corretta, quanto meno va razionalizzata. Ma la globalizzazione della cultura va guardata con attenzione perché apre orizzonti sempre più grandi, senza mettere in discussione le identità culturali...».
Che apra orizzonti sempre più ampi concordo; che faccia salve le identità culturali ho qualche dubbio...

«Seguimi. Viviamo nell'era dell'alta tecnologia, quella che consente attraverso la Tv e l'Internet di essere costantemente collegati con il mondo. Tu vivi a Toronto, ma al di là del tuo schermo ci sono Roma, Parigi, Singapore. Tu con la Tv 'entri' a Roma, Parigi, Singapore; con Internet stabilisci contatti e scambi in tempo reale con queste città. Ma continui a vivere a Toronto, a mantenere la tua identità. Non vedo un pericolo in questo tipo di globalizzazione. Ha sì l'inglese come lingua franca, ma proprio perché salva le identità culturali consente a lingue come l'italiano di sopravvivere e addirittura di espandersi. E anche di affiancare l'inglese. Ma senza fare esempi teorici, scendiamo in strada a Toronto...».
Cosa ci troviamo?


«Una miriade di comunità che grazie alle nuove tecnologie hanno contatti forti con i propri Paesi d'origine e con il resto del mondo. Toronto è la metafora, o se preferisci la riduzione in scala, della globalizzazione culturale. Ti domando: le comunità hanno perso la propria identità?»


No, non l'hanno persa. Anzi la difendono fin troppo ostinatamente a volte. Dialogano con i propri Paesi d'origine e con il resto del mondo, tuttavia hanno un dialogo difficile tra loro. Convivono pacificamente, questo sì, ma non vanno oltre. Cosa vedi nel futuro: le comunità continueranno a comunicare tra loro a corrente alternata o daranno vita finalmente a un dialogo forte e costante?


«Tu poni un problema al quale stanno lavorando da tempo fior di teste d'uovo. Non è facile rispondere. Io dico che il multiculturalismo che viviamo a Toronto, pur non avendo ancora completato la sua evoluzione naturale verso l'interculturalismo, è comunque impensabile in molti altri Paesi. Ed è già questo un ottimo risultato. Toronto oggi è come quelle televisioni cosiddette di nicchia che hanno lo schermo diviso in quattro parti: ci sono le news, le previsioni del tempo, i titoli di borsa e i risultati sportivi. Sono quattro argomenti diversi e separati, ma insieme fanno informazione. Completa, e tutta nello stesso momento. Voglio dire che le differenti etnie che convivono in città, pur nella loro diversificazione, sono l'anima di questa metropoli. Lasciamo che sia il tempo a stabilire se e quando daranno vita a un dialogo forte e costante. Oggi, anche se i cinesi non vanno oltre Chinatown e gli italiani si sono arroccati a Woodbridge resta il fatto che la loro presenza e quella di tante altre comunità è un patrimonio che in termini di cultura garantisce dividendi altissimi».

Di Antonio Maglio

nella foto, Gianrenzo Clivio e Pierluigi Roi



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