I FUNERALI E IL CORDOGLIO

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 06/12/2005
<b> I FUNERALI E IL CORDOGLIO </b>

I FUNERALI E IL CORDOGLIO



tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30 -’40.
Per la gentile concessione alla divulgazione telematica del libro, si ringraziano sia gli Eredi dell’Autore sia l’Amministrazione comunale di Alia, che nel 1997 ne ha curato la prima edizione.


«Mischinu, finìu di sòffriri!» Si diceva così se era un poveraccio, ché si sa che il ricco morendo perde il godimento della vita, mentre il povero perde le sofferenze, le pene della vita. C'era della gente che era particolarmente versata a manifestare la propria solidarietà: bastava che scorgesse per la strada quattro uomini che portavano un «tabutu» vuoto, che si metteva appresso sino alla dimora del destinatario. Entrava e, senza porre tempo di mezzo, si scioglieva in lacrime, e magari non conosceva nemmeno chi fosse il defunto. Così, perché «u stessu muortu 'mpara a chiànciri», come dire che il morto scuote la pietà umana, e il pianto diviene naturale, spontaneo. Poi, magari, la stessa persona che abbiamo vista prima struggersi in pianto davanti a uno sconosçiuto morto, mostrava la stessa disposizione a seguire un corteo che portava al fonte battesimale un «picciriddu», e con il medesimo slancio convertiva il «suo» precedente dolore in allegrezza piena, festante, in felicità per quella tenera creatura che stava per essere fatta cristiana. C'era di questa,gente. Perché, vedete, è così fatta la natura umana: essa gioisce o intristisce con la stessa partecipazione d'animo. Accoglie tutte le vicende che scorrono nel tempo, come ineluttabili. Sì, perché nella vita «panta rei»!

Ciò che è importante è che nell'animo umano ci sia disposizione a partecipare alle vicende dei propri simili, una disposizione che deve essere avvertita non solo come «momento» delle gioie e dei dolori altrui, ma come bisogno intimo di sentirsi «insieme», quasi per ripetere a sé stessi che «chi dell' altrui avversità si duole di sé medesimo si ricorda».

Questo era lo spirito che in quel tempo faceva muovere la ruota della vita della collettività contadina. E non credo che questo spirito, per molti aspetti, sia ancora venuto meno. Ne ho avuto dimostrazione io stesso recentemente e di cui mi corre l'obbligo morale di darne qui testimonianza.

I funerali al mio paese avevano una solennità, un' accorata partecipazione che si avvertiva in modo epidermico. La gente per l’occasione indossava il vestito migliore, in nero possibilmente, prendeva posto nel corteo, dietro il feretro seguito dai parenti: davanti precedeva il sacerdote, quasi sempre presenti anche le confraternite, e la banda musicale che suonava musica di circostanza, triste, lacerante, lenta, come lenti e stanchi erano i passi dei partecipanti al mesto corteo. La bara veniva portata a spalle. Il corteo attraversava le strade per giungere nel quartiere di S. Rosalia, per la
via che porta a «li Chianchiteddi», dove c'è il cimitero. Ivi giunto la musica si zittiva, e dopo poco echeggiava nell' aria l'ultimo grido del distacco dei parenti dal loro caro estinto.

Gli amici portavano via quasi a forza gli straziati congiunti dell' estinto e tutti si incamminavano sulla strada del ritorno sino alla dimora del trapassato. La gente si faceva attorno ai familiari: ciascuno andava a stringere la mano ai parenti del defunto, senza pronunciare parola. Sono circostanze in cui le parole non servono: «ammutiscon le lingue e parlan l'alme».

C'era tristezza in quelle cerimonie, ma c'era calore di solidarietà che faceva di tutto un popolo una sola famiglia.

Io ho avuto modo di rivivere lo stesso momento di quel tempo lontano, nel 1977, quando la sventura mi colpì improvvisa negli affetti più cari, con la morte di mia sorella Mary e di mia madre, decedute quasi simultaneamente. Morirono a Palermo dove erano tornate, dopo tanti anni, a trascorrere lietamente qualche giorno: mia sorella morì mentre assisteva la Mamma in agonia, e dopo pochi giorni morì la Mamma.

Io volli che venissero seppellite nel cimitero del loro paese natio. Ebbene, in quei drammatici momenti, io trovai tanta solidarietà fra la gente. E non me l'aspettavo, dopo tanti decenni che la mia famiglia mancava da Lalia. Ai funerali di mia sorella e di mia Madre ci fu una partecipazione corale della mia gente. Si ripeterono le stesse manifestazioni di solidarietà, con le medesime modalità rituali che avevo visto tante volte quando ero bambino: la gente indossava il vestito migliore, molti in nero, dietro le bare dei miei cari.

E quella gente che io nemmeno conoscevo o riconoscevo, mi accompagnò sino alla dimora di mia zia Dora e a uno a uno vennero tutti a stringermi la mano, qualcuno baciandomi anche. Donna Concettina Di Sclafani e la figlia Mary Guccione nell'ultimo viaggio avevano avuto l'omaggio della loro gente, come se non si fossero mai allontanate dal loro paese.

Il dolore è dentro di me come allora, ma è dentro di me anche il ricordo di quello slancio di fraterna solidarietà. Voglio dire, attraverso queste pagine di ricordi, tutti dedicati alla mia gente, voglio dire agli aliesi: grazie!
Mia Madre e mia Sorella non potevano avere omaggio più solenne!

Ma voglio dire anche che questo retaggio sublime dell' animo popolare, che non si è mai spento e che viene da lontano, dall'antica civiltà contadina, era un modo concreto e spontaneo di solidarietà che ciascuno manifestava in qualche modo per un qualsiasi evento che coinvolgesse ogni singola persona.
Che so io, la perdita di una mula, era sofferta non soltanto da chi la subiva, ma da chiunque avesse conoscenza dell' accaduto. Perché la mula per il contadino era tutto. Essa rappresentava il raccordo principale della sua vita di lavoratore; senza di essa non poteva assolvere ai suoi impegni: era come fosse mutilato.
E così attorno a quel disgraziato si stringeva solidale tutto il paese; come se ciascuno si sentisse parte della sventura toccata al paesano. Ecco come la vita di ciascuno e di tutti era al centro dell'impegno sociale e umano della collettività.

Si osserverà: ma era solo amore o non anche una convenzione tacita di reciproci interessi, un «utile» conveniente quello slancio di solidarietà? Ma certo! È ormai assodato e da tutti riconosciuto, anzi la storia stessa dell'umanità ne porge avviso, e filosofi e pensatori di ogni epoca ne hanno discettato, che ciò che ha sempre «associato» gli uomini è stato (ed è) «l'utile». Ma ciò nulla toglie al valore della solidarietà, al senso civico del rapporto umano nel quale si contemplano principi etico-sociali che costituiscono l'ossatura dell' «educazione» dell'uomo.

Di questo senso civile, di questa educazione troviamo tracce profonde anche nelle più antiche comunità. Nelle comunità contadine di tutte le epoche lo spirito di solidarietà era avvertito come momento fondamentale del vivere insieme, nel comune interesse, nell' essere «utili» l'uno all' altro.

Ancora oggi se due contadini si incontrano lungo una trazzera si salutano, anche se non si conoscono. Lo stesso non avviene nelle nostre metropoli: se due persone che abitano nello stesso palazzo si incontrano per le scale si ignorano, e se in quel palazzo improvvisamente corre un grido di aiuto, ciascuno si affretterà a rinserrare le imposte per potere dire poi di non avere sentito alcun grido, tanto da dovere accorrere in soccorso.

Ed è questo l'aspetto più mortificante del nostro tempo: gli uomini non si riconoscono più! La solidarietà di cui ci imbellettiamo ogni qualvolta una sciagura si abbatte su una porzione del genere umano, spesso si riduce ad una finzione che si accende e si spegne in un breve spazio di tempo e di azione, e solo per curare gli «effetti» del male, di qualsiasi male, vuoi di quello prodotto dalla natura o, peggio, dalla nequizia dell'uomo. Per cui la solidarietà di cui traiamo vanto dal passato, oggi va sempre più allontanandosi dal comune vivere insieme.

L'individualismo prende sempre più sopravvento e minaccia di prevaricare i rapporti umani, mortificando la natura umana nei suoi più conclamati valori. E così si assiste ogni giorno, rassegnati, sino a rasentare la complicità, allo sterminio di intere popolazioni, alla morte di migliaia di bambini uccisi dalla fame, dalle malattie, dalle guerre fratricide. E ogni giorno di più l'uomo resta solo, staccato da ogni fede e da ogni principio ideale che per antica educazione lo avevano sospinto alla fiducia, alla speranza, alla solidarietà. La quale non deve esprimersi solo verso gli «effetti» del male, della violenza (al minuto o all'ingrosso che sia), ma deve offrirsi soprattutto contro le cause delle miserie, delle violenze. Altrimenti la solidarietà resta monca, buona solo da portare a spasso, come la Domenica indossiamo il vestito più bello del nostro guardaroba.

Bisogna gridare alla nostra coscienza che si svegli, che è venuto il momento di salvare l'umanità, liberandola dalle sue brutture, prima che di essa si impadronisca la follia della cupidigia e dell'indifferenza. Perché anche in questo nostro mondo presente, dove uomini, idee, ingiustizie, dolori, violenze, amarezze, delusioni entrano in un conflitto estremo e continuo, deflagrando come granate in un campo di battaglia, anche in questo nostro mondo la speranza risolutiva di tanti conflitti può e deve essere affidata solo allo spirito di solidarietà che deve mobilitare tutte le coscienze.

Perché solo l'unità di tutti gli uomini, senza distinzione di fede e di idee, ma armati solo dalla volontà di riscatto sarà in grado di sconfiggere tutte le violenze e di restituire all'uomo la dimensione giusta per confrontarsi con le cose migliori di questa nostra esistenza. Ma bisogna fare presto. Prima che sia troppo tardi!
Ecco perché mi piace aggrapparmi, quasi disperatamente, alle immagini vissute del passato, alle cose semplici di quella cultura di vita contadina. Senza per questo disconoscere i valori del progresso, delle conquiste moderne che hanno però valenza in quanto esse conducano verso le alte vette dell' emancipazione umana; non solo di quella materiale, ma, soprattutto, di quella morale e spirituale. Allora sì! Sennò no!


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